8 marzo festa delle donne,
8 marzo giorno in cui, si sposta per alcune ore l’attenzione sul mondo al femminile, sulle conquiste ottenute, conquiste economiche, sociali, culturali,
8 marzo giorno in cui ripensiamo alla fatica d’esser donne, a quanto cammino c’è ancora da fare per valorizzare le diversità di genere, al di là delle abitudini e delle ricorrenze.
In realtà l’8 marzo dovrebbe essere un giorno in cui la donna possa riprendersi anche solo per “un giorno” il suo tempo, giusto il tempo che serve a tirare un respiro profondo, a guardarsi per un attimo indietro a riflettere su ciò che è stato fatto e subito ripartire più attiva e più combattiva di prima.
Sì, perché non possiamo stare nell’immobilismo dei diritti acquisiti, troppe sono ancore le cose da fare, perché troppe, e da troppo tempo, sono le cose negate alle donne, sia in occidente che in altri paesi.
In Italia il movimento “Se non ora, quando” ha portato in piazza una moltitudine di donne, le quali hanno dimostrato al Paese che anche nel silenzio, non hanno mai smesso di lavorare per loro stesse, per la propria famiglia, la propria comunità e per la società tutta, e che forse sia giunto il momento in cui gli uomini debbano smettere di pensare alla donna come corpo da sfruttare e come capo espiatorio dei propri fallimenti e frustrazioni, o come compagna utile a partorire prole e pietanze.
Le donne non chiedono la luna, chiedono l’opportunità di essere riconosciute come teste pensanti, di essere riconosciute come persone in grado di apportare il proprio contributo alle scelte politiche e sociali del proprio paese, anche perché di fatto esse in parte lo fanno già con la cura dei figli e della famiglia, alleggerendo allo Stato il peso del welfare.
Proprio perché esse vivono sulla propria pelle qualsiasi problema del primo nucleo della società, cioè della famiglia: esperimenti di ciò che necessita alla conduzione di una vita dignitosa per sé, per il partner, per i figli, e adesso anche per i familiari sempre più anziani, chiedono opportunità di accesso al lavoro e pari riconoscimento economico al proprio lavoro, chiedono maggiore possibilità di accesso all’istruzione e alla cultura, chiedono pari opportunità per le persone diversamente abili in quanto anche loro figli di una società civile con uguali diritti di uomini e donne che si ritengono “abili”, e le esperienze dimostrano che persone con gravi malformazioni anche sin dalla nascita, se amorevolmente e correttamente assistite e curate possono rivelarsi persone in grado di apportare notevoli contributi anche allo sviluppo culturale e scientifico di un paese, se non del mondo intero, cito ad esempio il fisico siracusano Fulvio Frisone.
Le leggi sono state fatte, esistono già: l’art. 3 della Costituzione Italiana garantisce uguaglianza fra le persone, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, e la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza delle persone.
Di fatto tutto ciò risulta molto difficile da realizzare, nonostante l’istituzione di un Ministero delle Pari Opportunità, nonostante l’istituzione di Codici di Pari Opportunità, di Commissioni Pari Opportunità (o forse proprio lo testimoniano l’esistenza di un ministero e di un codice delle Pari Opportunità), nonostante le raccomandazioni in tutti i luoghi di lavoro per garantire pari opportunità, garantire buone prassi ed opportunità per un numero sempre crescente di donne - meritevoli - a cui permettere di arrivare in posti decisionali e di comando (ma a ben guardare c’è sempre un uomo sopra di loro che le ha volute lì, o che le coordina, dirige, manipola). Non abbiamo mai avuto un Presidente del Consiglio donna, mai un Presidente della Repubblica o un Governatore della Banca d’Italia donna (ma forse neanche un capomafia...).
Ultimamente siamo riusciti a ricostituire il monocolore maschile nel Direttorio.
Sono ancora troppi gli stereotipi presenti nei nostri modi di pensare e di agire che ci impediscono di guardare all’altro come uguale a noi pur nella sua diversità, con le stesse potenzialità e fragilità.
E neanche la classe politica, per quanto rivestita di “quote rosa”, negli ultimi 20 anni in Italia (o forse 60?) ha saputo essere lungimirante, ha saputo lavorare per assicurare che i principi della Costituzione si traducessero in vita reale, in fatti della quotidianità (l’uguaglianza di genere, di razze, ecc.)
Ancora oggi non c’è chi, in un contesto lavorativo di qualunque natura (pubblico, privato, operaio, intellettuale), non pensi che una donna costituisce un rallentamento nella produttività, non consideri la maternità come un costo, la riflessività come ostacolo, i tempi di vita contrapposti ai tempi del lavoro e forse incompatibili...
Le leggi non hanno modificato questo substrato culturale che accomuna un po’ tutte le colorazioni politiche, sebbene idealmente alcune propugnino l’effettiva uguaglianza negli statuti e nei programmi.
La realtà di questi ultimi 20 anni ha ricacciato l’immaginario collettivo nei confronti della donna verso i più primordiali istinti dell’uomo cacciatore.
E non è possibile attribuire le responsabilità di tale regressione alle donne che per fragilità emotive e culturali hanno svenduto corpi e dignità. La responsabilità è sempre collettiva riguardo alle carenze culturali che hanno determinato tutto ciò, che hanno ridotto il valore della persona al valore del denaro e della transitoria bellezza fisica.
È vero che la stagione delle rivendicazioni violente della stagione del femminismo può considerarsi superata, ora lo strumento deve essere quello della consapevolezza del valore assoluto della persona, al di là del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle condizioni personale e sociali.
Annamaria Papaleo
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