Ho letto con interesse, su “Proibito”, gli articoli sul festival della DSC di Verona e propongo a riguardo alcune considerazioni.
E’ vero che la crisi che ci attanaglia da ormai un quinquennio non è una delle tante che ciclicamente ricorre ed è naturale che la sua profondità induca a cercare risposte più ampie, di portata sistemica. Le prescrizioni dell’ortodossia economica, infatti, improvvisamente appaiono vecchi arnesi, inadatti alla bisogna.
La Chiesa cattolica è sempre stata una voce avversa ai paradigmi dell’”homo oeconomicus”, ossia alla vulgata secondo cui l’egoismo dei singoli, lasciato libero di operare senza pastoie, conduce ad un livello di benessere altrimenti non raggiungibile.
Conseguentemente chiede che i principi di fondo del vivere sociale siano applicati anche all’operare in ambito economico. E, con Benedetto XVI, invoca un maggiore impulso al settore no-profit.
Tuttavia le critiche sembrano mancare il bersaglio. Non esistono infatti, nei paesi democratici, sospensive del diritto: i principi costituzionali sono operanti in ogni ambito, a prescindere dalla vigenza di specifiche leggi secondarie. Non vi è una zona franca costituzionale in economia. Così come non ne esiste una nella politica. In entrambe l’operare deve essere conforme allo spirito (non semplicemente alla lettera) dei principi costituzionali.
Poiché, dunque, il problema non è la carenza di norme, la soluzione non potrebbe consistere nell’istituirne di nuove. Occorrerebbe invece riflettere sul perché principi cardini della convivenza civile vengano disinvoltamente violati, a cominciare dai vertici.
E perché ciò non ingeneri intollerabile sdegno nella generalità dei cittadini.
La Chiesa punta l’indice contro il relativismo dilagante. Ma non è forse questo un effetto della disillusione indotta dai fallimenti degli assolutismi - di matrice religiosa e laica – che hanno segnato i secoli con scie di sangue e distruzione?
L’invocato <<riconoscimento della dimensione metafisica>> non rappresenta la soluzione ma è parte del problema.
Difatti, se da un lato è innegabile che, al fondo, ognuno abbia un proprio abbandono metafisico, proprie speranze (o preferenze) riguardo ai destini ultimi; d’altro canto, tuttavia, non è possibile assimilare immanente e trascendente. In particolare, le proposte per migliorare le relazioni e le condizioni di vita nelle società di questo mondo debbono fondarsi su criteri riconoscibili da tutti, senza dover aderire ad alcun dogma. La bontà di ciascuna proposta deve essere vagliata alla luce degli effetti concreti che produce nella società, ossia della sua effettiva capacità di promuovere equità e giustizia.
Nelle società democratiche i diritti fanno capo ad ogni singolo cittadino. Il che è un passo avanti decisivo rispetto ad epoche in cui i sudditi acquisivano diritti in ragione dello specifico gruppo di cui erano membri. Tuttavia, l’acquisita titolarità dei diritti da parte dei singoli, implica che gli stessi siano ora i portatori ultimi di doveri. I diritti, infatti, non esistono in natura ma conseguono dalla disponibilità reciproca ad assumere doveri, ossia ad autolimitarsi a vantaggio di un maggior bene comune.
Ed è proprio l’effettiva sussistenza di una tale disponibilità il tratto distintivo delle nostre società dalla legge di natura (la “legge della giungla”). Occorre dunque rifocalizzare il dibattito su tale precipuo aspetto, se le nostre società devono superare lo smarrimento valorialeche appare caratterizzarle crescentemente.
Nicola Firmani
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