mercoledì 13 febbraio 2013

LA RIFLESSIONE - Europa sì... ma quale?

Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano. (Elias Canetti)
«Male! male! Come? Se ne sta forse tornando ... indietro?»  Sì! Ma lo comprendete male, se vi lagnate di ciò. Arretra, ma a somiglianza di chiunque voglia spiccare un gran salto ... (Friedrich Nietzsche)


La storia dell’Europa unita inizia a Roma il 25 marzo 1957, con la firma del trattato che istituisce la Comunità economica europea e di quello che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica.
Per “Trattato di Roma” si intende il primo di questi documenti, il cui nome è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), noto come “Trattato di Maastricht” e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) o “Trattato di Lisbona”.
L’idea dei padri fondatori è quella di inaugurare una fase storica di pace e cooperazione, dopo le due disastrose guerre mondiali, combattute principalmente sul suolo del Vecchio Continente. Il compito che ci si prefigge è immane, seppure i paesi membri vantino radici (greco-romane e giudaico-cristiane) comuni. Superare secoli e secoli di divisioni e scontri è purtroppo tutt’altro che semplice. Col tempo si decide di iniziare concretamente l’opera, con l’obiettivo di creare un’area valutaria (e una moneta) comune. Dopo i primi tentativi (“serpente monetario” etc.) nel 1979 nasce lo SME, al quale aderisce anche l’Italia. Per l’Italia l’adesione allo SME rappresenta una vicenda con alti e bassi: dal “divorzio” tra Tesoro e Banca Centrale del 1981 (forse “primo atto” della creazione della moneta comune nel nostro Paese) alla drammatica crisi del 1992. La convergenza però almeno apparentemente funziona e quindi nel 1998 l’Italia entra a pieno titolo nell’area della nuova moneta unica, l’Euro. La presenza nell’area dell’euro comporta però anche oneri gravosi, come ad esempio il rispetto dei “parametri” espressi nel Trattato di Maastricht, i cui due più noti sono quelli del 3% tra deficit e Pil e del 60% tra debito e Pil, riaffermato con forza anche nell’ultimo “fiscal compact”. Il primo parametro è stato spesso rispettato nel corso degli anni, anche perché l’Italia vanta dal 1991 un più o meno consistente “avanzo primario” nei conti pubblici a cui però si affianca un pesante onere per interessi, in netta ascesa dall’inizio degli anni 80 (dopo il “divorzio”). Pertanto le politiche di rientro del debito e quindi di austerità continuano a essere definite “necessarie”. Quanto sostenibili e attuabili sarà da vedere.

Per quanto attiene al lato politico (e culturale), quel che si cerca di fare in Europa è di giungere all’uguaglianza degli individui nell’ambito democratico. Ci si può chiedere però quale sia il modello di riferimento per l’uguaglianza: uguali a chi? Nonostante Giuseppe Mazzini auspicasse una “Europa dei popoli” e Charles De Gaulle prediligesse una “Europa delle patrie”, quella che vediamo oggi è invece una “Europa del “pensiero unico” che propugna un’ideologia così descritta dallo storico Luciano Canfora: «L’“europeicità” è diventata la nuova ideologia, soprattutto presso la ex sinistra. Qui alligna ormai sempre più spesso il monito intimamente compiaciuto e pensoso: “Ce lo chiede l’Europa!”. Un tale ritornello, che serve a tappare la bocca a qualunque rilievo critico, è solo una parte dell’ideologia “europea”. Si finge infatti che l’epiteto “europeo” (di cui si ignorano peraltro il contenuto e il significato, nonché l’ambito geografico), possa, e anzi debba, riferirsi – qualificando e promuovendo – a un qualche oggetto o fatto o comportamento. Per non parlare della “prospettiva” che è sempre tenuta ad essere “europea” ».

In un contesto reso più difficile dalla crisi, il prosieguo del processo di unificazione (compito immane, come detto) necessiterebbe di un’idea e di un’ispirazione nuove che dovrebbero scaturire anche da un nuovo momento di partecipazione dei cittadini. Un “colpo d’ala” che non si intravvede all’orizzonte.
Per quanto riguarda invece il quadro globale nel quale l’Europa si inserisce, la crisi apertasi negli ultimi anni ha investito i concetti-cardine scaturiti dal crollo dell’Unione Sovietica, ovvero l’egemonia unipolare statunitense e il sistema liberista, che costituiscono i pilastri della strategia globalizzatrice finora perseguita. La crisi si è manifestata in maniera progressiva dapprima come crisi finanziaria e dei mercati, poi come crisi economica del settore reale. Ora inizia a palesarsi come crisi di sistema e in definitiva “di civiltà”: “di sistema” in quanto nessuno degli “agenti” operanti presi singolarmente è in grado di affrontarla e risolverla; “di civiltà” (e quindi di “proposta culturale”) in quanto ci troviamo forse di fronte a quel tornante della Storia che segna la fine dell’egemonia occidentale come la conosciamo più o meno a partire dal 1492.
Il “Centro regolatore” che finora presiedeva all’assetto globale non è più in grado di funzionare in maniera “stabile” e “ordinata”. Si tende quindi a un assetto “disordinato” (“caos globale”) e in prospettiva verso il cosiddetto “multipolarismo”. Resta da vedere se questo “trapasso” avverrà in maniera indolore o meno. Gli esempi storici registrati finora purtroppo non ci spingono all’ottimismo. In ogni caso la crisi continuerà a manifestare i suoi effetti. E’ probabile tuttavia che le varie forze in campo si illuderanno a lungo sulla possibilità di ripristinare un equilibrio e una mutua cooperazione, continuando ad incontrarsi, sfruttando organismi e istituzioni internazionali creati però nella precedente epoca (prima bipolare, poi monocentrica) fingendo che essi funzionino ancora da luoghi di accordo e composizione dei contrasti. Simile finzione però non regge più e ciò spiega i continui nulla di fatto dei vari G-x e l’impasse dell’ONU.
Occorre dunque prendere atto della realtà (del “concreto” come direbbe Canetti), e affrontarla in maniera “adulta”. Una riflessione seria va fatta senza tabù, anche con l’idea di fare un passo indietro, con l’obiettivo sperabile di spiccare il salto “nicciano”.
Passo indietro che per l’Italia significa ad esempio affrontare anche i problemi della “sovranità” e del “ricambio” della classe dirigente (politica, economica, imprenditoriale, sindacale) che in prospettiva rischiano di far entrare in disfacimento il Paese. La classe dirigente viene infatti sempre più manifestamente contestata perché non in grado di difendere gli interessi nazionali e quelli della quota maggioritaria del suo popolo.

Nel frattempo, l’ingresso nell’arena elettorale di una pretesa visione “tecnica” segna uno spartiacque nella storia politica italiana: l’intenzione, apertamente dichiarata, è quella di sostituire alla tradizionale contrapposizione destra/sinistra la nuova pro UE/contro UE (o globalisti/sovranisti). La designazione dei campi politici contrapposti coincide con le analisi di intellettuali di diversa estrazione come Alain de Benoist o Costanzo Preve. Peccato che solo in parte questa contrapposizione (e i suoi significati) venga esplicitata ai cittadini. In definitiva, tra un’IMU e una TARES, forse sarebbe ora di pensare: quale Europa vogliamo?
Edoardo Tagliaferri

CPO: c'era una volta, 15 anni fa...


A volte, tornare indietro con la memoria aiuta a capire vizi e virtù dei tempi presenti (i vizi, soprattutto). Vi proponiamo la lettura di questi brani tratti dalla Relazione CPO del 1998, che analizzava criticità e avanzava proposte concrete. Quindici anni fa. Segnalateci le differenze...

"...La Commissione annette grande importanza a questo pacchetto di interventi perché afferma come prioritario il valore sociale della maternità, che costituisce comunque un momento di particolare delicatezza nell’esperienza lavorativa della donna.

Dall'esame del sistema di gestione della maternità in Banca d'Italia, sono emerse alcune criticità collegate:
  • al sistema di valutazione;
  • alla definizione dell’utilizzo al rientro dall’assenza;
  • all’aggiornamento professionale;
  • alla disciplina penalizzante di alcune causali di assenza collegate alla maternità;
  • ai servizi di assistenza all'infanzia.
Tali criticità a giudizio della commissione incidono negativamente sullo sviluppo di carriera del personale femminile sia in modo diretto sia indirettamente determinando condizioni di demotivazione.

Criticità:
Si è rilevato che, a fronte di assenze per maternità, anche limitate soltanto per i 5 mesi di astensione obbligatoria, l’'effetto alone" provocato dal periodo di assenza porta il valutatore, di norma, a confermare la valutazione dell' anno precedente pur in presenza di prestazioni tali da meritare un incremento della valutazione.
Proposta
la commissione propone che venga introdotta una valutazione straordinaria effettuata immediatamente prima dell'inizio dell’astensione obbligatoria, che tenga conto del livello della prestazione effettuata fino a quel momento. Ad esempio, se l'estensione obbligatoria inizia a febbraio, verrà stilato il rapporto valutativo entro febbraio, con riferimento al periodo settembre-febbraio.

Criticità
Al rientro dalla maternità sono stati riscontrati casi in cui, le donne sono state trasferite ad altra unità o assegnate ad altre mansioni meno gratificanti.
Raccomandazione
la commissione raccomanda che i Titolari delle Unità siano sensibilizzati affinché sia garantito alle donne che rientrano in servizio dopo un periodo di assenza per maternità il mantenimento delle stesse attività, almeno fino a un anno dal rientro in servizio.

Criticità
Durante l'assenza per maternità non sono curati l'informazione e l'aggiornamento professionale della lavoratrice. Ciò rende più complessi il superamento delle difficoltà di reinserimento e, in alcuni casi, la preparazione ad esami interni per gli avanzamenti di carriera.
Raccomandazione
La commissione raccomanda che vengano sensibilizzati i Titolari delle Unità di appartenenza sull'opportunità d inviare alla dipendente i documenti ritenuti rilevanti ai fini dell'attività svolta e di programmare la partecipazione a corsi di aggiornamento al rientro dal periodo di assenza;
siano previsti a favore delle lavoratrici che rientrano da periodi di maternità, specifici “itinerari di reinserimento” di durata non inferiore a 2 settimane, da effettuarsi - di norma - sotto la guida del titolare della struttura di appartenenza.

Criticità
L'attuale normativa a tutela della maternità prevede la possibilità di assentarsi per malattia del figlio senza retribuzione, fino a tre anni di vita del bambino. Ciò determina una eccessiva penalizzazione economica delle lavoratrici e pertanto è limitato il ricorso a tale facoltà.
Proposta
La commissione propone che venga inserito il caso di malattia del figlio e le causali previste per la concessione del congedo straordinario, fermo restando il numero complessivo annuo di giorni previsto dal regolamento del personale.

Criticità
L'astensione facoltativa per maternità incide negativamente negli avanzamenti per anzianità congiunta al merito (ad esempio, nel caso degli avanzamenti degli Assistenti superiori).
Proposta
nei passaggi di carriera per anzianità congiunta merito la commissione propone che venga inserito la fine del calcolo dell'anzianità anche l'eventuale periodo di astensione facoltativa fino al raggiungimento del primo anno di vita del bambino.
La possibilità di usufruire di un servizio di assistenza per i figli vicino o presso il posto di lavoro, è accordata al solo personale femminile addetto alle strutture dell'area romana.

Criticità
Orario di lavoro. Nella cultura aziendale viene ancora ritenuta non solo premiante, ma spesso essenziale una prolungata permanenza nel luogo di lavoro, ben oltre il normale orario. In tale contesto, può risultare pertanto svalutata la prestazione lavorativa del personale femminile, spesso condizionata nella sua articolazione oraria dalle particolari esigenze familiari
Proposta
La commissione ritiene che vada significativamente rinnovato il quadro normativo interno in tema di orario di lavoro e flessibilità della prestazione lavorativa. In particolare, si propone di modificare:
  • le condizioni normative del part-time, sia economiche sia di carriera attraverso

  1. l’ampliamento dell’arco temporale part-time…;
  2. l’ introduzione del part-time verticale su 3 o 4 giorni settimanali;
  3. l'eliminazione della relazione inversa tra il tempo “lavorato” e quello necessario di permanenza in grado per aspirare ad avanzamenti.
  • Il regime di flessibilità di orario attraverso

  1. La possibilità di distribuire l’orario complessivo settimanale su 4 giorni anziché 5…
  2. una maggiore elasticità in entrata e in uscita e dell'intervallo mensa
  3. la possibilità di completare l'orario di lavoro nell'arco del mese anziché della settimana
  4. la possibilità di fruire mensilmente in certa misura riposi compensativi a fronte di prestazioni straordinarie
  5. inserimento di un tetto il plus orario del personale, direttivo superato il quale sia obbligatorio il ricorso a forme di riposo compensativo..."

Montepaschi: il potere e l'esercizio


Siamo davvero felici di aver dato il nostro contributo all’Istituzione Banca d’Italia, sollecitando interventi sulla vicenda Montepaschi, che poi ci sono stati, che propongono con serietà un passo avanti del nostro lavoro e del nostro ruolo nella società.
Però ci permettiamo una piccola riflessione ulteriore, proprio perché lo dice anche il Governatore Visco: “Vogliamo il potere di rimuovere gli amministratori che mettono a rischio la stabilità delle banche”.
Perfetto, ragioniamo un attimo. Il documento diffuso urbi et orbi dalla Banca d'Italia sugli interventi posti in essere sulla situazione Montepaschi recita: “data la difficile situazione emersa a seguito dell’ispezione, il Direttore della Banca d'Italia convoca il 15 novembre 2011 i massimi vertici di Montepaschi, al fine di metterli di fronte alle proprie responsabilità e richiede al Montepaschi una rapida, netta discontinuità nella conduzione aziendale”.
Nel giro di pochi mesi sia il Direttore generale Vigni sia il Presidente Mussari vengono “convinti” a lasciare i loro incarichi.
Allora, forse questi poteri un po’ ce li abbiamo: la famosa moral suasion funziona. Per la precisione: funziona, a volerla usare. Ma evidentemente non si è voluto usare il nostro potere fino in fondo: l’11 luglio 2012, pochi mesi dopo aver lasciato il Montepaschi per la pressione della Banca d’Italia, Mussari viene rieletto presidente della ABI, l'associazione bancaria italiana, con il voto di tutte le banche. Perché non abbiamo fatto sapere al sistema bancario che Mussari “non ci convinceva”? O qualcuno pensa che una persona valutata inidonea a guidare una banca possa invece essere adatta a guidare l’associazione di tutte le banche?
Anche la nostra presenza al massimo livello, al discorso di Mussari di reinsediamento all’ABI, è un segnale contraddittorio. Per essere credibili quando si chiedono maggiori poteri, forse potremmo iniziare a usare meglio quelli che abbiamo. Nessuna legge vieta di alzarsi dalla sedia e lasciare solo il presidente dell’ABI, se si è davvero consapevoli della situazione a cui ha portato il Montepaschi, con gravi rischi per la reputazione nostra e per le finanze del Paese. Per assumere e svolgere bene certe responsabilità, occorre il pre-requisito della trasparenza e della pubblicità. In attesa delle leggi che arriveranno, esercitiamoci (molto) su questo aspetto.

COSTITUZIONE - Articolo 3

Molti dei valori del SIBC trovano una radice chiara nella Costituzione della Repubblica Italiana. Spesso dimenticata, magari per esigenze di parte, essa indica ancora oggi obiettivi irrinunciabili del nostro impegno sindacale e civile. Ogni numero di Proibito proporrà un articolo fra quelli più rappresentativi del nostro modo di essere.


Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

L'INCONTRO - Un convegno con Serge Latouche


Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota”, parole di Serge Latouche, economista, “ateo della crescita”, “obiettore di decrescita”, miscredente dell’economia.
E’ indubbio che il sistema economico degli ultimi trenta anni non sia più sostenibile: prova ne è la crisi, afferma, che dal 2007 attanaglia i paesi occidentali e gli Stati Uniti.
Dal 1945 in poi abbiamo creato un marketing, una “fabbrica di bisogni” che non favorisce alcuna crescita economica ma gonfia le discariche, oggi ricche di oggetti di apparecchi ancora funzionanti, ma dismessi perché obsoleti. Abbiamo creato un marketing “a tre piedi” fatto di pubblicità, bilancio economico mondiale ed inquinamento materiale: la pubblicità ci ha inculcato il desiderio di possedere, ci ha resi talmente insoddisfatti da farci desiderare anche ciò che non ci serve. L’insoddisfazione e l’infelicità che ne deriva ci fa consumare di più; per consumare serve il danaro che non abbiamo a sufficienza; ecco quindi che intervengono le banche a prestarcelo e a spostare e concentrare i capitali in poche mani: il debito si moltiplica a dismisura e sempre più è richiesto al popolo di contribuire per far finta di cercare di estinguerlo.

Nel 2007 sono stati pagati 24 mila miliardi di dollari per salvare le banche.
Da Ivan Illich, filosofo, Latouche prende ad esempio la chiocciola: questa è l’emblema della lentezza ma è anche l’esempio della saggezza: la chiocciola costruisce la sua casa formando il 1 cerchio, il primo alveolo, poi fa il secondo che è il doppio del primo, fa il 3 che è quattro volte il primo, al quarto si ferma, la sua casa è sufficientemente grande, è ora di passare al consolidamento della casa e, fatto ciò vive in serenità il resto della sua vita.
Per l’uomo non è così, lui non si accontenta, costruita la sua prima casa, ne vuole un’altra e poi un’altra ancora, deve poi riempirla con mobili e suppellettili, desidera pure viaggiare e conoscere il mondo, insomma: si crea bisogni che non sempre sono necessari alla sua esistenza, e questi bisogni aumentano sempre di più, diventano bisogni infiniti … ma il guaio è che lui vive, noi tutti viviamo, in un mondo finito.

Prima c’era la convinzione che l’aria, l’acqua erano beni immateriali infiniti, ma dal dopoguerra in poi lo sfruttamento delle risorse del pianeta ha subito una fortissima accelerazione. Ma la società ha inferto un’accelerazione eccessiva alla crescita economica senza che per gli individui corrispondesse una possibilità di crescita che significhi felicità. Secondo Latouche, la crescita non aumenta il benessere, poiché implica una spesa per riparare i danni che essa stessa comporta. Ad esempio, per fare dieci km con la macchina occorre un litro di carburante, esaurito questo ne serve dell’altro e serve dell’altra energia per produrre un altro litro di carburante e così via. Tanta più energia va a trasformarsi in uno stato indisponibile, di ancora più energia si avrà bisogno e sempre più energia sarà sottratta alle generazioni future.
Il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito e le conseguenze (produrre meno e consumare meno) sono lontane dall’essere accettate, e persino proposte. Latouche afferma che - se non si cambierà rotta - fra non molti anni sarà la catastrofe ecologica, il pianeta sarà completamente sfruttato e saturo di rifiuti senza possibilità per l’uomo di condurvi una vita degna di essere tale.
Allora - è questo il messaggio finale di Letouche - bisogna correre al più presto ai ripari, bisogna lasciare l’ideologia irrazionale e suicida della crescita, per risolvere invece i danni dello sfruttamento e dell’invasione dei rifiuti; bisogna  invertire la rotta, muovendoci verso una “società d’abbondanza frugale": non potremo avere felicità se non avremo la capacità di limitare i nostri bisogni. Questo significherà riorganizzarci, riorganizzare la società tutta.

Latouche propone il circolo virtuoso delle “8 erre”: innanzitutto resistere, resistere al consumismo, resistere e poi:

  • rivalutare i valori umani quali l’amore per la verità, il senso della giustizia, la responsabilità personale, il rispetto della differenza, la solidarietà;
  • riconcettualizzare, cioè ripensare ai concetti di ricchezza/povertà e rarità/abbondanza;
  • ridurre gli sprechi: i paesi ricchi producono 4 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno, mentre milioni di bambini del sud del mondo muoiono per fame, ridurre anche i tempi di lavoro, lavorare meno per lavorare tutti e per restituire tempo alla vita relazionale;
  • ristrutturare, riconvertire le industrie, ricercare energie rinnovabili, riorientare la ricerca scientifica verso una medicina ambientalista e non verso una ricerca che favorisca le industrie farmaceutiche;
  • riutilizzare, la crescita impone una obsolescenza programmata, ma oggi è urgente riciclare ciò che si è già prodotto;
  • redistribuire i diritti tra nord e sud del mondo, uscire dal gioco al massacro della globalizzazione, permettendo alle idee di ignorare le frontiere, bisogna rilocalizzare l’economia
  • rilocalizzare, limitare all’indispensabile i movimenti di merci e di capitali, vivere local, consumare cibi e prodotti a km 0, provenienti da un’agricoltura paesana, biologica, priva di pesticidi e più rispettosa della natura.
Questa può essere un’utopia concreta se solo lo vorremo, se ciascuno di noi sarà capace di cambiare nel proprio piccolo il modo di vivere, contenendo i bisogni e condividendo con il prossimo i beni che la natura continua, ancora oggi, gratuitamente ad offrirci. 

Annamaria Papaleo