mercoledì 12 giugno 2013

Come governare la catena produttiva globale – Michael Spence (Trento, 30 maggio 2013)

Introdotto da Tito Boeri, il Premio Nobel in economia del 2001 ha cercato di spiegare, con l’ausilio di un robusto apparato quantitativo, come i meccanismi di cambiamento che avvengono sui mercati globali siano molto più rapidi di quello che avveniva fino a poco tempo fa, nonché come le pressioni, a cui ormai tutti i paesi sono oggi sottoposti, derivino dalla fitta rete di reciproche interconnessioni che esistono tra i vari sistemi economici. Ciò dovrebbe essere tenuto ben presente da tutte le persone, ma soprattutto dalle istituzioni politiche che governano i diversi paesi. Una domanda sorge allora quasi spontanea: qualora i paesi emergenti “vincano” la loro “sfida allo sviluppo”, a farne le spese saranno i paesi sviluppati? Spence risponde in modo negativo. Secondo lo studioso, infatti, ad oggi il rischio principale delle economie in via di sviluppo è ancora quello “esterno”: i paesi ricchi sono il loro principale mercato e conseguentemente la loro preoccupazione fondamentale è che da noi si riavvii al più presto una crescita sostenuta e duratura, in grado di dare sbocco alle loro produzioni.
In generale, continua l’economista, in futuro vinceranno quei sistemi economici che si adatteranno, meglio e prima degli altri, a mercati globali in continua evoluzione. Nel secondo dopo guerra il punto di riferimento era il mondo occidentale, composto da nazioni sostanzialmente simili tra di loro per comportamenti e cultura, ora invece il nuovo ambito di attenzione non può che essere quello delle cosiddette economie emergenti dove viene prodotto il 50% del PIL mondiale e dove si registrano tassi di crescita medi del 6-7%. La questione fondamentale di oggi è la “transazione” di questi paesi verso il “modello occidentale”, con i suoi livelli di produzione e con i suoi standards di distribuzione dei redditi. È probabile che molti di questi paesi raggiungano il livello di PIL dei sistemi più sviluppati già tra una decina d’anni, ma è anche prevedibile che la distribuzione del reddito attorno alle medie occidentali tardi ancora di un’ulteriore ventina d’anni; è altrettanto probabile, infine, che i paesi sviluppati tenderanno nel prossimo futuro ad una crescita molto lenta se non addirittura nulla. Tali tendenze sono confermate anche dagli ultimi dati disponibili che evidenziano una ripresa negli USA, che però non riesce a riprodurre i livelli occupazionali ante crisi, e una recessione continua nei paesi UE, che con molta probabilità, secondo Spence, si protrarrà per altri 2 anni, per poi lasciare spazio solo ad una crescita caratterizzata da dinamiche molto lente.
Il Premio Nobel osserva come la globalizzazione e l’innovazione tecnologica stiano atomizzando i cicli di produzione in numerose piccole fasi tra di loro distinte, dando così l’opportunità alle imprese di trasferire i lavori routinari, anche quelli impiegatizzi (pensiamo ad esempio all’effetto dell’automazione nel lavoro del settore bancario), dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo, dove il lavoro ha un prezzo considerevolmente più basso. L’altro lato della stessa medaglia di questo fenomeno è la creazione di “nuove povertà” nei paesi sviluppati, dove questa tipologia di lavoro verrà sempre di più a mancare e dove i posti di lavoro saranno sempre più concentrati nei “beni non commerciabili”, soprattutto servizi, con salari progressivamente decrescenti in termini reali perché non collegati a produttività elevate. Questo è uno dei fattori principali che spiegano la ragione per cui crescita e occupazione in futuro non saranno più così strettamente correlate come un tempo e per cui non ci si potrà più quindi logicamente attendere determinati livelli occupazionali da prefissati tassi di crescita del PIL. In questo contesto la distribuzione del reddito andrà sempre più a favore del “capitale fisico” e di quello “umano”, ovvero dei lavoratori con skills elevati o particolari livelli di specializzazione. L’attuale interconnessione commerciale mostra come tutti i paesi siano ormai legati da relazioni fittissime e come le economie avanzate stiano cedendo progressivamente quote commerciali a quelle emergenti, che incominciano a diventare dei veri e propri grandi mercati di consumo indipendenti dalle prime, con interscambi sempre più elevati tra di loro. Ciò significa che i paesi in via di sviluppo stanno creando delle economie sempre più indipendenti e resilienti, in grado cioè di generare nel prossimo futuro una domanda aggregata (consumi e investimenti) sufficiente per la loro produzione nazionale.
Secondo Spence i problemi che assillano i paesi occidentali, pur essendo diversificati tra di loro, sono in via generale legati ad un’unica causa principale: un livello di investimento troppo basso per consentire un livello di produzione adeguato a sostenere gli attuali livelli di reddito, occupazione e distribuzione salariale. Per di più la loro produzione è realizzata a spese delle future generazioni, ovvero utilizzando esclusivamente lo strumento del debito. Tale scelta, “strategicamente aberrante” per le giovani generazioni, vede infatti le attuali economie in via di sviluppo essere “prestatori netti” delle economie avanzate.
In Germania si è finora riusciti a limitare i danni di questa inevitabile “transazione”, rendendo il mercato interno del lavoro molto flessibile, cosa che, secondo lo studioso, non è ancora stata fatta in maniera sufficiente in paesi come l’Italia. Il consiglio del Premio Nobel al nuovo governo italiano è allora quello di perseguire un programma bilanciato di “ragionevole” rigore fiscale, distribuito nel tempo, in combinazione con la realizzazione di riforme orientate alla “crescita” e all’”occupazione” (labour flexibility market), anche se queste due “variabili” non torneranno, comunque, in tempi brevi ai livelli pre-crisi. Successivamente l’Italia dovrebbe concordare, con gli altri partner europei, una “struttura dell’eurozona più stabile”, ovvero con migliori “meccanismi di aggiustamento” tra paesi aderenti alla moneta unica.

Molte personalità affermano che un’Unione europea meramente “economica”, come quella attuale, non abbia alcun senso e che non sia sufficiente a risolvere i maggiori problemi degli stati aderenti; la soluzione suggerita per lo più è allora quella di arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Per Spence, però, nell’ attuale situazione, ciò non sarà risolutivo dei problemi delle economie europee: forse lo potrà essere solo in una prospettiva di più lungo termine. Il problema di oggi per tutti i paesi UE è che hanno sì una moneta comune ma hanno anche una situazione “decentralizzata” per quanto riguarda le loro economie reali, compresi gli aspetti che condizionano la produttività e la crescita, come gli investimenti del settore pubblico, la flessibilità del mercato del lavoro, il sistema fiscale, gli investimenti nell’istruzione e nel capitale umano. L’Europa ha così una “struttura” reale che è inevitabilmente destinata a produrre divergenza nella produttività dei diversi sistemi economici, ma che è priva del principale meccanismo di aggiustamento, quello del tasso di cambio, che potrebbe attenuarne le conseguenze più importanti. Quindi, date le condizioni attuali, la moneta unica forza la convergenza in modo doloroso. Bisogna quindi scegliere: o centralizzare e unificare, in modo che le divergenze siano meno forti, o tenersi il decentramento, e trovare più numerosi, o migliori, meccanismi di aggiustamento. Secondo Spence, comunque, a priori, qualsiasi delle due soluzioni non sarà sicuramente migliore dell’altra, per tutte le economie coinvolte.

Economia e Sovranità - Incontro con Ugo Mattei (Rovereto, 25 maggio 2013)

Il professor Ugo Mattei si è ha esordito lamentandosi immediatamente del fatto di non essere stato invitato quest’anno al Festival dell’Economia di Trento per alcune sue “posizioni eterodosse” espresse l’anno prima durante quella manifestazione. Docente di diritto all’Università di Torino é stato tra i promotori del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Ha inoltre ricoperto un ruolo importante nella cosiddetta Commissione Rodotà, che lo ha visto protagonista nell’elaborazione di una cornice giuridica capace di disciplinare la gestione dei beni collettivi. In particolare si è occupato delle loro dismissioni, ambito in cui i governi (nazionali e locali) hanno in passato goduto di piena discrezionalità e arbitrio, mancando qualsiasi principio giuridico ordinatore. Una condizione normativa obsoleta e del tutto inadeguata, ha spesso rischiato di privare la collettività di beni essenziali per la soddisfazione di bisogni fondamentali, costituzionalmente tutelati.
L’intervento vero e proprio è iniziato con quella che lui considera una vera e propria mutazione antropologica, supportata dal diritto e pienamente realizzata negli ultimi 25 anni: la considerazione dell’uomo esclusivamente come consumatore, con tutto quello che ne segue, come l’egoismo dell’“hic et nunc” e la perdita di relazionalità. Questo problema deriva dal vulnus di fondo che sta alla base del rapporto tra diritto e realtà: se il diritto non è altro che il superamento del limite attraverso un’astrazione mentale, il pericolo della fuga dalla realtà è dietro l’angolo. Come esempio Mattei ha parlato del concetto di persona giuridica, un ente la cui durata va oltre la vita delle persone che la compongono, così che il suo valore le trascende, fino ad inghiottirle e farle scomparire, con un passaggio di sovranità pericoloso. In quest’ottica è facile capire come si possa passare dai mercati reali a quelli finanziari. L’uomo rischia di figurare come un atomo alienato e interscambiabile con gli altri, quando piuttosto dovrebbe realizzarsi, comunicando all’interno di una comunità che lo valorizza. Bisogna sempre tener presente che l’essere umano deve essere il perno della bilancia e non una merce di scambio. Mattei ritiene ormai necessaria e non più rinviabile non una semplice ricerca sulle sole cause contingenti dell’attuale crisi, ma un ripensamento generale del “paradigma dominante”, sia sul lato economico che su quello politico e filosofico. L’economia deve tornare ad essere inquadrata per quello che è, un mezzo a disposizione degli uomini e non un loro fine.
L’intervento è continuato con la definizione di “bene comune”, un concetto mentale che però diventa concreto non appena la sua disponibilità viene a mancare, come può succedere, e secondo Mattei in Italia è successo spesso, in seguito a “liberalizzazioni” senza regole. Queste hanno rappresentato quasi sempre delle vittorie di interessi di parte, con privatizzazioni di utili e redistribuzioni di perdite. Lo studioso invita a prendere atto che “gestione pubblica” non significa però  nemmeno “proprietà dei partiti”. La gestione dei beni pubblici deve basarsi su di una logica del tutto diversa, dove la “diffusione” del potere impedisca al “potente” di turno di decidere al posto di o contro tutti e dove la logica della tutela sia basata sulla prospettiva del “perdente”.Il punto di arrivo allora deve essere quello di un modello di socialità e partecipazione diffusa e diretta nella gestione dei beni comuni.
Come ha spiegato Mattei, rispondendo ad alcuni spunti del pubblico, l’Alterfestival può essere un appuntamento critico importante per la nostra società se permetterà la condivisione di un’analisi del funzionamento di quei meccanismi economici che hanno generato l’elusione della sovranità statale.

Economia e Sovranità - Incontro con Massimo Fini e Antonino Galloni (Rovereto, 24 maggio 2013)

Il primo dibattito di Alter Festival ha coinvolto Massimo Fini, giornalista e scrittore, e Antonino Galloni, economista e già funzionario del ministero del Tesoro, sulla tematica che ha dato il titolo alla sua prima edizione.
Massimo Fini ha attaccato duramente il modello di sviluppo occidentale, descritto come un meccanismo di crescita continua e paradossale: una crescita infinita che non si concilia con una quantità finita di risorse, un concetto quello di infinito che possiamo trovare in logica ma che non esiste in natura. Tale visione di una produzione potenzialmente senza limiti, ci condiziona e ci rende inevitabilmente schiavi del PIL, condizionando ogni aspetto della nostra vita e omologando tutte le economie e le culture. All’inizio del suo intervento Fini ha citato Friedrich Nietzsche, cercando, almeno nelle sue intenzioni, di compiere un passo in avanti rispetto all’affermazione di questo filosofo di fine 800, secondo cui Dio sarebbe morto. Secondo l’intellettuale,infatti, non solo Dio sarebbe morto, ma anche tutte quelle espressioni che si riconducono a lui, perché ci richiamano al senso d’infinito, e che manifestano in qualche senso un delirio d’onnipotenza dell’uomo, sono inevitabilmente crollate.

La società occidentale contemporanea vive male perché lo squilibrio che sta sperimentando non è solo economico, ma soprattutto esistenziale. La tecnologia e l’economia hanno emarginato le esigenze più importanti della persona, riducendolo a mero consumatore, per di più incattivendolo attraverso uno stimolo continuo e progressivo dell’invidia, un suo sentimento innato, diventata il valore assoluto della società dell’opulenza, e stressandolo con un dinamismo che non fa parte della sua natura umana. La soluzione “impopolare”che Fini individua è la “decrescita”, nella prospettiva concreta dell’autoproduzione, guardando al medioevo come paradigma, in cui l’economia era basata sulla cooperazione tra gli uomini e non sulla competizione sfrenata. Ad esempio, gli statuti delle corporazioni vietavano di distogliere il cliente dal negozio del vicino, e le terre venivano distribuite con un criterio di giustizia, non di efficienza, così che ogni nucleo familiare potesse avere il proprio spazio vitale. L’esempio del medioevo è evidentemente un paradosso, che permette però di porsi delle domande sul percorso che l’umanità ha intrapreso puntando tutto su una visione dell’economia di stampo liberale e utilitaristica e emarginando altre istanze ed esigenze dell’uomo. Fini ha quindi suggerito agli intervenuti di prendere spunto dal passato, ripercorrendo la storia economica senza fossilizzarsi sul modello attuale, che a suo dire si può riassumere in un triste e cinico “lavora, consuma, crepa!”.
Antonino Galloni ha proposto una lettura della realtà più ottimista di quella di Fini, basata sul fatto che negli ultimi anni, specialmente fra le generazioni più giovani, sembra essere cresciuta una maggiore consapevolezza delle criticità dell’attuale sistema economico-sociale; a suo giudizio non si può pretendere di cambiare tale situazione partendo dalle riforme istituzionali, ma si deve iniziare da una svolta culturale fatta propria dai singoli individui e che coinvolga anche le nuove classi dirigenti del paese, anche quelle politiche, che oggi si dimostrano completamente inadeguate.
La proposta dell’economista è quella di volgersi verso un sistema nuovo, che non sia alternativo al capitalismo ma che vada oltre il capitalistico: se Galloni considera la proposta finiana della decrescita felice nefasta, in quanto insostenibile in termini demografici, ritiene invece indispensabile contrastare l’attuale idea dominante di uno sviluppo incondizionato, acritico e quindi irresponsabile. La giustizia sociale si basa sulla centralità dell’uomo e a questa tutto il resto deve essere subordinato, perfino la sovranità monetaria intesa come possibilità di accesso alle migliori tecnologie disponibili da parte di tutti.
Un’altra semplice quanto interessante constatazione espressa da Galloni è stata quella relativa alla presenza di tantissimo “lavoro non remunerato” (come ad esempio l’assistenza agli anziani, ai bambini, ai malati), che andrebbe organizzato e valorizzato in misura maggiore rispetto a quello che attualmente viene fatto. Ciò permetterebbe alla società di offrire nuovi posti di lavoro, da finanziare, attraverso la sovranità monetaria, con strumenti ad hoc, come ad esempio il reddito di cittadinanza. Non possiamo illuderci di pensare che questo possa avvenire diversamente e magari in base alle attuali regole istituzionali monetarie e alle scelte di politica monetaria da sempre attuate in Eurolandia. La crescita economica tornerà in Italia solo ripartendo dallo sviluppo della domanda interna, legata direttamente alla capacità di acquisto degli italiani e alla capacità del sistema di esportare le sue eccedenze. In tale contesto l’Italia dovrebbe avere quale obiettivo-vincolo finale almeno il pareggio della bilancia commerciale, riducendo se necessario le importazioni.
Aperto il dibattito con il pubblico, Galloni si è concentrato su questioni tecniche, dimostrando come in assenza di regole comuni a livello planetario, la decantata concorrenza fra i diversi sistemi economici, premi di fatto il “produttore peggiore”, cioè quello che riesce a pagare di meno la mano d’opera, che fa lavorare i bambini, distrugge l’ambiente e non tutela la salute.



Sovranità, Economia, Conflitti - Festival dell'Economia e Alter Festival

Presentato per la prima volta nella sede della Borsa Italiana a Milano, il Festival dell’Economia di Trento ha inaugurato la sua prima edizione a giugno 2006 trattando il tema “Ricchezza e Povertà”.
Da allora l’evento, organizzato dalla Provincia Autonoma di Trento, dal Comune di Trento e dall’Università di Trento e progettato da Editori Laterza in collaborazione con il Gruppo 24 Ore, accoglie in palazzi storici, chiostri e sale riccamente decorate, tutti a pochi passi dal centro, una kermesse internazionale per discutere di economia.
Le edizioni successive hanno sviluppato ogni anno argomenti diversi, aprendosi a pluralità di idee e ambiti culturali. Il tema affrontato quest’anno è stato la “Sovranità in conflitto”. Economisti, politici, politologi, sociologi, giornalisti e imprenditori hanno discusso appassionatamente in pubblico, senza mai fermarsi alla semplice teoria ma accompagnandola dalla descrizione di fatti sociali, di ragioni culturali, di esperienze storiche e politiche, che hanno affascinato e coinvolto un pubblico molto ampio e trasversale. Motivati dalla voglia di capire di più e informarsi, molti visitatori, il cosiddetto “popolo dello scoiattolo” (il simpatico animaletto è il simbolo della manifestazione), sono arrivati da lontano per ascoltare relazioni e dibattiti di personalità tutte di elevato spessore culturale. In un clima informale, agli interventi hanno fatto seguito le domande del pubblico che, di volta in volta, ha instaurato un confronto alla pari con i vari relatori. Come ogni anno il Festival dell’Economia non si è fermato alle sole conferenze, ma è continuato anche all’aperto: informazioni, confronti, cinema, laboratori, approfondimenti di ogni genere hanno animato gli angoli del centro storico della città.
Insomma un festival internazionale, pluridisciplinare e multiculturale, dove hanno trovano spazio voci e idee tra loro anche contrapposte e dove si sono potuti ascoltare grandi pensatori e intellettuali provenienti da tutto il mondo. Il risultato, anche secondo le intenzioni dichiarate dagli organizzatori, avrebbe dovuto essere stato un festival plurale che rifiuta il “pensiero unico” e l’”indottrinamento”, costruendosi sul dialogo e il confronto e finalizzato alla diffusione anche tra la gente comune del sapere economico, in modo da favorire sempre di più la corrispondenza tra i bisogni reali dei cittadini e le scelte economiche dei vari policy makers.
Non tutti però hanno la stessa opinione sulle vere intenzioni e sui reali risultati raggiunti da questa manifestazione. Da quest’anno, infatti, altri organizzatori, questa volta non più enti pubblici e gruppi economici editoriali ma per lo più gruppi di cittadini appartenenti trasversalmente a movimenti della società civile, hanno dato vita a Rovereto, una piccola cittadina a meno di trenta chilometri a sud di Trento, all’Alter Festival, con l’obiettivo dichiarato di porsi in netta contrapposizione alle posizioni “politically correct, comunque sempre propagandate, a loro dire, dal Festival dell’Economia di Trento. Data la quasi totale mancanza di sponsor e la conseguente relativa scarsità di risorse finanziarie disponibili, gli appuntamenti di questo nuovo evento sono stati più ridotti sia come numerosità sia come diversità di contenuti, nonché molto più concentrati come orizzonte temporale, rispetto al proprio più celebre “antagonista”. L’intento della manifestazione, così come dichiarato, è quello di svolgere un ciclo di dibattiti in materia economica, volto a contrapporre al “pensiero unico dominante” la divulgazione di teorie e pensieri di intellettuali ed “economisti eterodossi”, con particolare riguardo ai temi della macroeconomia e della geopolitica. Oltre quindi a promuovere un approccio alle tematiche indirizzato a tutta la cittadinanza, perché basato su un metodo ed un linguaggio semplice -così come fa anche il Festival dell’Economia- l’obiettivo di questo nuovo evento è però quello di ampliarne il dibattito, approfondendo e stimolando l’”analisi critica” nei confronti della realtà economica e politica attuale, nonché delle sue prospettive di sviluppo future. Si è voluto dare spazio e visibilità a pensieri alternativi a quello imperante, proponendo un tema specifico, “Economia e Sovranità”, che ha svolto il ruolo di leitmotiv nei vari interventi; in pratica si sono invitati i vari relatori a confrontarsi sul funzionamento di quei meccanismi economici che generano erosione di sovranità in uno Stato e su come tali meccanismi possono essere limitati o addirittura bloccati.
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Di seguito riportiamo cinque recensioni curate da Marco Piazza e da Michele Rizzolli, che ringraziamo vivamente per la capacità di elaborazione ed espositiva, in cui sono rapidamente raccontate le argomentazioni sviluppate in alcuni importanti appuntamenti dei due Festival e a cui hanno direttamente partecipato i due colleghi. Come abbiamo già sottolineato in passato, il rapporto fra “economia” ed “etica” e “cittadini” e “centri di potere” è uno degli snodi fondamentali per poter comprendere il mondo moderno e quello futuro. Su tali questioni il SIBC intende tornare a vari livelli anche in futuro e invita pertanto tutti coloro che parteciperanno ad eventi di approfondimento e di analisi attinenti al citato rapporto – di qualunque orientamento politico e sociale – a darcene conto in scritti o riflessioni da condividere tra tutti i lavoratori del nostro Istituto.

Abbandonare l’euro? – James Alexander Mirrlees (Trento, 2 giugno 2013)

Presentato da Tito Boeri, il Premio Nobel in economia del 1996 ha cercato di spiegare perché l’idea di abbandonare l’Eurozona, che finora è stato un tabù, non solo italiano, del dibattito politico, risulterebbe una decisione positiva per molte economie europee, tra cui sicuramente l’Italia e la Spagna. Secondo sir Mirrless nell’area dell’euro vi sono sistemi economici che devono rendere meno caro il prezzo dei beni che producono e contemporaneamente aumentare la base monetaria per finanziare una loro necessaria espansione fiscale. Il dilemma è come raggiungere questi due obiettivi senza distruggere la fiducia internazionale nei confronti del paese che intraprende questa strada, anche perché in numerose realtà i problemi al sistema produttivo sono accompagnati da dati occupazionali e fiscali molto pesanti.
Per l’economista l’errore fatale dell’attuale politica europea è quella del timingdelle misure di austerità: in una fase di depressione, come quella che stiamo attraversando, non è proprio il caso di attuare politiche che comprimono ulteriormente l’economia reale. L’Europa è una regione del mondo che, nella fase del ciclo in cui si trova, dovrebbe incrementare i suoi debiti pubblici nazionali piuttosto che ridurli: più cose si riescono a fare sul fronte della spesa in questo momento, più breve sarà il tempo che ci separa da quello in cui si potranno di nuovo stringere i cordoni della borsa pubblica.
Alla domanda se uscire dall'euro significhi fuggire, Mirrlees osserva che la crisi si può affrontare solo resistendo ad essa, ma combatterla può voler dire anche considerare percorribile l’”opzione della fuga". Ciò, a suo avviso, non costituirebbe un “ricatto”, ma semplicemente una specie di “negoziato” tra i paesi oggi in maggiore difficoltà economica, con elevati tassi di disoccupazione, e la Germania, che permetterebbe ai primi di salvare i loro sistemi economici. Quest’ancora di salvataggio dovrebbe essere poi accompagnata da politiche statali di espansione della domanda e da un taglio delle tasse e degli stipendi dei lavoratori con professioni poco qualificate e a bassa produttività. Il tutto per raggiungere un livello di piena occupazione. Mirrlees si dichiara apertamente un sostenitore del welfare state, per cui diminuzioni delle prestazioni di assistenza da parte dell’autorità pubblica sono ritenute decisamente inopportune. Ma come si fa, si chiede il Premio Nobel, a porre fine alle politiche europee di austerity se non lasciando l’euro? Ciò non sarebbe solo una possibilità teorica, anche se oggi sarebbe più difficile di quanto invece è stato ieri entrarci. Con l'euro i paesi sono entrati in un sistema di regole molto severo ed hanno in sostanza dovuto adottare la politica fiscale voluta dalle autorità nazionali tedesche. L'espansione di cui questi Paesi hanno invece bisogno deve essere finanziata sul versante monetario. L’economista scozzese ha nella sostanza illustrato un quadro generale del sistema economico europeo a geometria variabile, dove alcuni Stati “non se la cavano poi troppo male” (Germania, Polonia e Regno Unito) ed altri che hanno invece subito un crollo dei propri investimenti reali, con conseguenze “drammatiche” sull’occupazione e “meno drammatiche” sul loro livello di produzione. Per quanto riguarda il nostro paese, Mirrlees ritiene che il debito sia sempre stato un problema rilevante per il nostro sistema economico, ma che non è dato sapere con esattezza fino a che punto: “è difficile capire se è di per sé stesso un così grave problema”. Ci si deve preoccupare così tanto del debito? Sì sicuramente esiste un problema default, con tutte le spiacevoli conseguenze del caso, ma il debito di per sé è solamente un segnale del fatto che le istituzioni politiche spendono senza avere un controllo sulla spesa. 
La cosa più importante nella situazione attuale non è quella della riduzione del debito, ma quella di riportare il livello degli investimenti a quello antecedente l’inizio della crisi. La difficoltà sembra rintracciabile nella mancata volontà da parte dei soggetti finanziari, in primis delle banche, di erogare finanziamenti: la stessa politica monetaria ha fallito nel suo tentativo di intervento su questo versante. C’è chi pensava che un tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento della BCE attorno allo zero avrebbe aiutato in questa direzione, ma non ci si è chiesti se le banche avessero accettato tale politica, ovvero se avessero o no ripreso a finanziare i progetti delle imprese e delle famiglie. Il problema rilevante per sir Mirrless, infatti, è quello di capire come incoraggiare gli investimenti produttivi.  Una possibilità sarebbe quella di avere delle assicurazioni sui prestiti effettuati dalle banche, un’altra quella di avere degli istituti di credito pubblici.
La conclusione dello studioso è che oggi, forse, sono le stesse imprese a non voler più investire, perché ritengono probabile una prossima uscita dalla crisi e conseguentemente un prossimo rapido innalzamento del livello dei tassi di interesse, che ridurrebbe drasticamente i loro livello di profitti attesi.
In conclusione l’opzione di abbandonare l’euro potrebbe riguardare più di un paese sfiancato dalla crisi, dalla recessione e dalla deflagrazione dei debiti sovrani. Lo sconquasso dei sistemi economici è finora stata affrontato con “rigore feroce” da FMI, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Un rigore però che non si sa bene dove porterà: non si sa infatti se le misure adottate porteranno effettivamente ad avere i “conti in ordine”, ma nel frattempo sicuramente si saranno depressi i consumi e si saranno distrutti milioni di posti di lavoro.

Processo alla Finanza – Salvatore Rossi (Trento, 1 giugno 2013)

Coordinato dalla giornalista Tonia Mastrobuoni, l’intervento di Salvatore Rossi al Festival dell’Economia è avvenuto all’interno della sessione “Incontri con l’autore” e si è articolato attraverso un dialogo con Marco Onado e Pier Carlo Padoan, per la presentazione ufficiale dell’ultima fatica letteraria del Direttore Generale della Banca d’Italia. Il libro “Processo alla Finanza” parte dalla constatazione che in tutto il mondo dopo lo scoppio dell’ultima crisi, i cui postumi sono ancora ben visibili, molte voci, sia di gente comune sia di insigni intellettuali, si sono levate a esecrare il mostro finanziario e l’impotenza dei popoli verso di esso. È questa una moderna caccia alle streghe, e quindi la finanza rappresenta la foemina instrumentum diabolicontemporanea o è invece una sacrosanta indignazione contro autentici soprusi? Su tale domanda fondamentale l’autore svolge una serie di riflessioni incastonate in una struttura formale che riproduce un vero e proprio processo, con tutte le garanzie procedurali democratiche, in cui si da equamente la parola all’accusa e alla difesa. L’idea dell’autore è stata quella di istruire un processo più articolato e meditato, con il beneficio del maggior tempo trascorso, di analogo artificio presentato nel 2009 proprio al Festival dell’Economia di Trento e di cui il professor Onado rappresentava la pubblica accusa. I passi procedurali si realizzano tramite l’identificazione dell’imputato, l’esposizione progressiva dei capi di accusa, dei fatti, degli argomenti dell’accusa e di quelli della difesa, cui si susseguono delle riflessioni che cercano di sceverare le buone ragioni dalle cattive sia nell’accusa sia nella difesa, lasciando comunque ai lettori, i giudici di questo processo, il compito di formarsi il proprio personale verdetto finale.
L’intento è stato quello di non precostituire una tesi preconcetta, un attacco demagogico alla finanza e a chi vi lavora o una loro difesa d’ufficio, ma piuttosto quello di contribuire a cercare di capire la realtà, usando tutta la neutralità ideologica ed emotivapossibile e attraverso un discorso comprensibile anche a chi tecnico non è, e non vuole diventarlo, ma vuole semplicemente formarsi un’opinione su una questione che è al centro del dibattito pubblico in tutto il mondo da almeno cinque anni.
Tre sono le categorie individuate per i potenziali imputati: i soggetti professionali privati che operano in campo finanziario (banche, gestori di fondi di investimento, di fondi pensione, di fondi sovrani, di hedge funds, amministratori di agenzie di rating, etc.), coloro che hanno responsabilità amministrative di regolazione e supervisione degli intermediari e dei mercati finanziari (organismi di vigilanza), nonché coloro che avendo responsabilità politiche contribuiscono a formare il quadro normativo-istituzionale di riferimento (governi e parlamenti). Tuttavia, poiché l’impressione è che la gente ce l’abbia con la finanza in quanto sistema, ossia in quanto abito mentale o schema concettuale e di comportamento, l’attenzione nella prima parte si incentra sul significato generale del termine finanza, indicata come insieme di strumenti per “traslare nel tempo e nello spazio la possibilità/capacità di procurarsi cose utili nell’immediato”. 
Si invita poi il lettore a riflettere su tre concetti che vi sono in qualche modo connaturati quali quello di moneta, di credito e di assicurazione e agli elementi che questi fattori hanno in comune, ossia il fattore tempo e il nesso rischio/rendimento. Il trascorrere del tempo e i mutamenti che questo può portare, vengono appresi e interiorizzati dall’uomo attraverso la leva psicologica più potente ed efficace: quella dei desideri e dei bisogni. Imparare a proiettare un desiderio nel futuro o a prevedere un bisogno è un “salto evolutivo fondamentale”: se mi si delinea nella mente un desiderio o un bisogno futuro devo mettermi nelle condizioni di soddisfarlo. In tale maniera “l’uomo esce dalla barbarie dell’imminenza, dalla ferinità di una vita regolata dal consumo di sopravvivenza, che si esaurisce nell’attimo presente” (S. Rossi in “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale”). Il conflitto tra rischio e rendimento pone il problema di evitare la possibilità sempre concreta di non riuscire a soddisfare tale necessità e l’esigenza di massimizzare tale soddisfacimento attraverso un’opportuna valutazione e diversificazione del proprio portafoglio.
Cinque sono i capi d’accusa a carico della finanza: è destabilizzante, è irreale, è incomprensibile, è prodiga ed è irragionevole. 
La finanza può destabilizzare intere economie e società e addirittura tutto il mondo. Dopo il fallimento della Lehman Brothers il PIL delle economie avanzate si è bruscamente ridotto con effetti ancora più gravi sul livello occupazionale e sulle casse pubbliche. È indubbio che nelle economie di mercato capitalistiche l’apparato finanziario generi ogni tanto delle esplosioni di instabilità che causano forti danni economici, impoverimento e fratture sociali. 
L’accusa che la finanza sia irreale risale all’idea della distinzione concettuale tra “economia reale” ed “economia finanziaria”, in particolare la prima definita come quella parte dell’economia coinvolta nella produzione effettiva di beni e di servizi, la seconda individuata come quella parte che consiste nel comprare e vendere sui mercati finanziari. Che la finanza produca servizi per la società, i quali fanno parte a pieno titolo della produzione nazionale non sembra però poter essere messo in dubbio. La distinzione grossolana tra economia reale, buona e utile, e finanza irreale, cattiva e dannosa, contiene pertanto una contraddizione interna, perché la stessa attività di comprare e vendere sui mercati finanziari è essa stesso un servizio, prodotto a beneficio di qualcuno disposto ad attribuirgli un valore, anche se poi nessuno ci assicura che il valore attribuito ai servizi della finanza nei conti nazionali sia corretto ed è questo forse il vero problema. 
La finanza risulta poi incomprensibile a causa del proliferare dei cosiddetti strumenti finanziari complessi, come ad esempio i derivati, a cui lavora ormai un esercito di matematici, fisici e ingegneri, il cui intento di distribuire il rischio non lo fa però scomparire miracolosamente. Tali strumenti possono venire facilmente trasformati da strumenti assicurativi in scommesse buone per fare del puro gioco d’azzardo, in alcuni casi persino truccato. Bisognerebbe allora che un’autorità pubblica facesse in modo, con regole appropriate e attenti controlli, che strumenti nati per accrescere il benessere della società non degenerino a vantaggio di pochi e a svantaggio di tutti gli altri e che le compravendite di derivati non avvengano over-the-counter, ma su mercati ufficiali e regolamentati attraverso un’intesa internazionale. Si sente inoltre l’esigenza di un’autorità pubblica globale che vigili sulla concorrenza nel mercato dei ratings e sulla correttezza di chi vi opera; bisogna insomma controllare le agenzie di rating che svolgono l’importante funzione di convogliare valutazioni professionali su chiunque intenda contrarre un debito a beneficio della sterminata platea dei potenziali creditori. Il mercato infatti è oggettivamente distorto dal fatto che in molti casi a pagare il servizio non sono i creditori ma gli stessi esaminati; inoltre la situazione risulta ulteriormente aggravata dal fatto che circostanze storiche hanno limitato a tre il numero degli operatori e li hanno concentrati in un solo paese. Delle cartolarizzazioni inoltre se ne è fatto un abuso sistematico, tollerato, quando non incoraggiato, da chi aveva invece la responsabilità di fissare paletti regolamentari e di vigilare sul loro rispetto. 
La finanza è prodiga, nel senso che i guadagni dei professionisti della finanza ai livelli più alti hanno avuto un’escalationincontrollata, ostentatamente spropositata. 
La finanza è irragionevole perché appare come un terreno di scorrerie di branchi in preda a emozioni irrazionali (euforia, panico e credulità), in cui facilmente una credenza diventa un feticcio e con la stessa rapidità, per uno stormir di fronde, il feticcio viene abbattuto e si afferma la credenza contraria, con lo stesso stolido conformismo.

I suggerimenti finali per il lettore, che formulerà il suo personale verdetto, sottolineano come lo sviluppo dei sistemi economici sia strettamente correlato allo sviluppo finanziario, ossia come la triade credito, moneta, assicurazione sia centrale per far funzionare e crescere qualsiasi economia, ovvero per poter aumentare le opportunità di benessere di tutti, purché si riesca a evitare disastri come quello che ha colpito il mondo nel 2008. Il problema diventa allora come riuscire a tenersi i benefici permanenti della finanza, evitando, il più possibile, il rischio che un suo cattivo uso causi, in un momento, tali e tanti danni da distruggere in poco tempo i benefici guadagnati in lunghi decenni. Il focus per Rossi deve allora concentrarsi sul punto di equilibrio tra libertà e regole. Questo, a suo giudizio, deve essere collocato più dalla parte delle regole che non da quella della libertà di azione nei mercati e ciò per due principali ordini di ragione. La prima perché la materia oggetto degli scambi di tipo finanziario è in ultima analisi la fiducia, che è impalpabile ma che è anche molto facile da perdere e che comunque rappresenta la base su cui poggia ogni comunità umana. La seconda perché è nella natura umana abusare dello strumento del debito e, di converso, del credito e perché è cruciale per tutte le economie bilanciarne i rischi e le opportunità. Mettere l’accento sulle regole per ovviare al fallimento del mercato non è quindi per l’autore un precetto da economia pianificata, ma una necessità essenziale per ogni sistema economico e un caposaldo del pensiero liberale.