mercoledì 12 giugno 2013

Come governare la catena produttiva globale – Michael Spence (Trento, 30 maggio 2013)

Introdotto da Tito Boeri, il Premio Nobel in economia del 2001 ha cercato di spiegare, con l’ausilio di un robusto apparato quantitativo, come i meccanismi di cambiamento che avvengono sui mercati globali siano molto più rapidi di quello che avveniva fino a poco tempo fa, nonché come le pressioni, a cui ormai tutti i paesi sono oggi sottoposti, derivino dalla fitta rete di reciproche interconnessioni che esistono tra i vari sistemi economici. Ciò dovrebbe essere tenuto ben presente da tutte le persone, ma soprattutto dalle istituzioni politiche che governano i diversi paesi. Una domanda sorge allora quasi spontanea: qualora i paesi emergenti “vincano” la loro “sfida allo sviluppo”, a farne le spese saranno i paesi sviluppati? Spence risponde in modo negativo. Secondo lo studioso, infatti, ad oggi il rischio principale delle economie in via di sviluppo è ancora quello “esterno”: i paesi ricchi sono il loro principale mercato e conseguentemente la loro preoccupazione fondamentale è che da noi si riavvii al più presto una crescita sostenuta e duratura, in grado di dare sbocco alle loro produzioni.
In generale, continua l’economista, in futuro vinceranno quei sistemi economici che si adatteranno, meglio e prima degli altri, a mercati globali in continua evoluzione. Nel secondo dopo guerra il punto di riferimento era il mondo occidentale, composto da nazioni sostanzialmente simili tra di loro per comportamenti e cultura, ora invece il nuovo ambito di attenzione non può che essere quello delle cosiddette economie emergenti dove viene prodotto il 50% del PIL mondiale e dove si registrano tassi di crescita medi del 6-7%. La questione fondamentale di oggi è la “transazione” di questi paesi verso il “modello occidentale”, con i suoi livelli di produzione e con i suoi standards di distribuzione dei redditi. È probabile che molti di questi paesi raggiungano il livello di PIL dei sistemi più sviluppati già tra una decina d’anni, ma è anche prevedibile che la distribuzione del reddito attorno alle medie occidentali tardi ancora di un’ulteriore ventina d’anni; è altrettanto probabile, infine, che i paesi sviluppati tenderanno nel prossimo futuro ad una crescita molto lenta se non addirittura nulla. Tali tendenze sono confermate anche dagli ultimi dati disponibili che evidenziano una ripresa negli USA, che però non riesce a riprodurre i livelli occupazionali ante crisi, e una recessione continua nei paesi UE, che con molta probabilità, secondo Spence, si protrarrà per altri 2 anni, per poi lasciare spazio solo ad una crescita caratterizzata da dinamiche molto lente.
Il Premio Nobel osserva come la globalizzazione e l’innovazione tecnologica stiano atomizzando i cicli di produzione in numerose piccole fasi tra di loro distinte, dando così l’opportunità alle imprese di trasferire i lavori routinari, anche quelli impiegatizzi (pensiamo ad esempio all’effetto dell’automazione nel lavoro del settore bancario), dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo, dove il lavoro ha un prezzo considerevolmente più basso. L’altro lato della stessa medaglia di questo fenomeno è la creazione di “nuove povertà” nei paesi sviluppati, dove questa tipologia di lavoro verrà sempre di più a mancare e dove i posti di lavoro saranno sempre più concentrati nei “beni non commerciabili”, soprattutto servizi, con salari progressivamente decrescenti in termini reali perché non collegati a produttività elevate. Questo è uno dei fattori principali che spiegano la ragione per cui crescita e occupazione in futuro non saranno più così strettamente correlate come un tempo e per cui non ci si potrà più quindi logicamente attendere determinati livelli occupazionali da prefissati tassi di crescita del PIL. In questo contesto la distribuzione del reddito andrà sempre più a favore del “capitale fisico” e di quello “umano”, ovvero dei lavoratori con skills elevati o particolari livelli di specializzazione. L’attuale interconnessione commerciale mostra come tutti i paesi siano ormai legati da relazioni fittissime e come le economie avanzate stiano cedendo progressivamente quote commerciali a quelle emergenti, che incominciano a diventare dei veri e propri grandi mercati di consumo indipendenti dalle prime, con interscambi sempre più elevati tra di loro. Ciò significa che i paesi in via di sviluppo stanno creando delle economie sempre più indipendenti e resilienti, in grado cioè di generare nel prossimo futuro una domanda aggregata (consumi e investimenti) sufficiente per la loro produzione nazionale.
Secondo Spence i problemi che assillano i paesi occidentali, pur essendo diversificati tra di loro, sono in via generale legati ad un’unica causa principale: un livello di investimento troppo basso per consentire un livello di produzione adeguato a sostenere gli attuali livelli di reddito, occupazione e distribuzione salariale. Per di più la loro produzione è realizzata a spese delle future generazioni, ovvero utilizzando esclusivamente lo strumento del debito. Tale scelta, “strategicamente aberrante” per le giovani generazioni, vede infatti le attuali economie in via di sviluppo essere “prestatori netti” delle economie avanzate.
In Germania si è finora riusciti a limitare i danni di questa inevitabile “transazione”, rendendo il mercato interno del lavoro molto flessibile, cosa che, secondo lo studioso, non è ancora stata fatta in maniera sufficiente in paesi come l’Italia. Il consiglio del Premio Nobel al nuovo governo italiano è allora quello di perseguire un programma bilanciato di “ragionevole” rigore fiscale, distribuito nel tempo, in combinazione con la realizzazione di riforme orientate alla “crescita” e all’”occupazione” (labour flexibility market), anche se queste due “variabili” non torneranno, comunque, in tempi brevi ai livelli pre-crisi. Successivamente l’Italia dovrebbe concordare, con gli altri partner europei, una “struttura dell’eurozona più stabile”, ovvero con migliori “meccanismi di aggiustamento” tra paesi aderenti alla moneta unica.

Molte personalità affermano che un’Unione europea meramente “economica”, come quella attuale, non abbia alcun senso e che non sia sufficiente a risolvere i maggiori problemi degli stati aderenti; la soluzione suggerita per lo più è allora quella di arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Per Spence, però, nell’ attuale situazione, ciò non sarà risolutivo dei problemi delle economie europee: forse lo potrà essere solo in una prospettiva di più lungo termine. Il problema di oggi per tutti i paesi UE è che hanno sì una moneta comune ma hanno anche una situazione “decentralizzata” per quanto riguarda le loro economie reali, compresi gli aspetti che condizionano la produttività e la crescita, come gli investimenti del settore pubblico, la flessibilità del mercato del lavoro, il sistema fiscale, gli investimenti nell’istruzione e nel capitale umano. L’Europa ha così una “struttura” reale che è inevitabilmente destinata a produrre divergenza nella produttività dei diversi sistemi economici, ma che è priva del principale meccanismo di aggiustamento, quello del tasso di cambio, che potrebbe attenuarne le conseguenze più importanti. Quindi, date le condizioni attuali, la moneta unica forza la convergenza in modo doloroso. Bisogna quindi scegliere: o centralizzare e unificare, in modo che le divergenze siano meno forti, o tenersi il decentramento, e trovare più numerosi, o migliori, meccanismi di aggiustamento. Secondo Spence, comunque, a priori, qualsiasi delle due soluzioni non sarà sicuramente migliore dell’altra, per tutte le economie coinvolte.

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