mercoledì 12 giugno 2013

Come governare la catena produttiva globale – Michael Spence (Trento, 30 maggio 2013)

Introdotto da Tito Boeri, il Premio Nobel in economia del 2001 ha cercato di spiegare, con l’ausilio di un robusto apparato quantitativo, come i meccanismi di cambiamento che avvengono sui mercati globali siano molto più rapidi di quello che avveniva fino a poco tempo fa, nonché come le pressioni, a cui ormai tutti i paesi sono oggi sottoposti, derivino dalla fitta rete di reciproche interconnessioni che esistono tra i vari sistemi economici. Ciò dovrebbe essere tenuto ben presente da tutte le persone, ma soprattutto dalle istituzioni politiche che governano i diversi paesi. Una domanda sorge allora quasi spontanea: qualora i paesi emergenti “vincano” la loro “sfida allo sviluppo”, a farne le spese saranno i paesi sviluppati? Spence risponde in modo negativo. Secondo lo studioso, infatti, ad oggi il rischio principale delle economie in via di sviluppo è ancora quello “esterno”: i paesi ricchi sono il loro principale mercato e conseguentemente la loro preoccupazione fondamentale è che da noi si riavvii al più presto una crescita sostenuta e duratura, in grado di dare sbocco alle loro produzioni.
In generale, continua l’economista, in futuro vinceranno quei sistemi economici che si adatteranno, meglio e prima degli altri, a mercati globali in continua evoluzione. Nel secondo dopo guerra il punto di riferimento era il mondo occidentale, composto da nazioni sostanzialmente simili tra di loro per comportamenti e cultura, ora invece il nuovo ambito di attenzione non può che essere quello delle cosiddette economie emergenti dove viene prodotto il 50% del PIL mondiale e dove si registrano tassi di crescita medi del 6-7%. La questione fondamentale di oggi è la “transazione” di questi paesi verso il “modello occidentale”, con i suoi livelli di produzione e con i suoi standards di distribuzione dei redditi. È probabile che molti di questi paesi raggiungano il livello di PIL dei sistemi più sviluppati già tra una decina d’anni, ma è anche prevedibile che la distribuzione del reddito attorno alle medie occidentali tardi ancora di un’ulteriore ventina d’anni; è altrettanto probabile, infine, che i paesi sviluppati tenderanno nel prossimo futuro ad una crescita molto lenta se non addirittura nulla. Tali tendenze sono confermate anche dagli ultimi dati disponibili che evidenziano una ripresa negli USA, che però non riesce a riprodurre i livelli occupazionali ante crisi, e una recessione continua nei paesi UE, che con molta probabilità, secondo Spence, si protrarrà per altri 2 anni, per poi lasciare spazio solo ad una crescita caratterizzata da dinamiche molto lente.
Il Premio Nobel osserva come la globalizzazione e l’innovazione tecnologica stiano atomizzando i cicli di produzione in numerose piccole fasi tra di loro distinte, dando così l’opportunità alle imprese di trasferire i lavori routinari, anche quelli impiegatizzi (pensiamo ad esempio all’effetto dell’automazione nel lavoro del settore bancario), dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo, dove il lavoro ha un prezzo considerevolmente più basso. L’altro lato della stessa medaglia di questo fenomeno è la creazione di “nuove povertà” nei paesi sviluppati, dove questa tipologia di lavoro verrà sempre di più a mancare e dove i posti di lavoro saranno sempre più concentrati nei “beni non commerciabili”, soprattutto servizi, con salari progressivamente decrescenti in termini reali perché non collegati a produttività elevate. Questo è uno dei fattori principali che spiegano la ragione per cui crescita e occupazione in futuro non saranno più così strettamente correlate come un tempo e per cui non ci si potrà più quindi logicamente attendere determinati livelli occupazionali da prefissati tassi di crescita del PIL. In questo contesto la distribuzione del reddito andrà sempre più a favore del “capitale fisico” e di quello “umano”, ovvero dei lavoratori con skills elevati o particolari livelli di specializzazione. L’attuale interconnessione commerciale mostra come tutti i paesi siano ormai legati da relazioni fittissime e come le economie avanzate stiano cedendo progressivamente quote commerciali a quelle emergenti, che incominciano a diventare dei veri e propri grandi mercati di consumo indipendenti dalle prime, con interscambi sempre più elevati tra di loro. Ciò significa che i paesi in via di sviluppo stanno creando delle economie sempre più indipendenti e resilienti, in grado cioè di generare nel prossimo futuro una domanda aggregata (consumi e investimenti) sufficiente per la loro produzione nazionale.
Secondo Spence i problemi che assillano i paesi occidentali, pur essendo diversificati tra di loro, sono in via generale legati ad un’unica causa principale: un livello di investimento troppo basso per consentire un livello di produzione adeguato a sostenere gli attuali livelli di reddito, occupazione e distribuzione salariale. Per di più la loro produzione è realizzata a spese delle future generazioni, ovvero utilizzando esclusivamente lo strumento del debito. Tale scelta, “strategicamente aberrante” per le giovani generazioni, vede infatti le attuali economie in via di sviluppo essere “prestatori netti” delle economie avanzate.
In Germania si è finora riusciti a limitare i danni di questa inevitabile “transazione”, rendendo il mercato interno del lavoro molto flessibile, cosa che, secondo lo studioso, non è ancora stata fatta in maniera sufficiente in paesi come l’Italia. Il consiglio del Premio Nobel al nuovo governo italiano è allora quello di perseguire un programma bilanciato di “ragionevole” rigore fiscale, distribuito nel tempo, in combinazione con la realizzazione di riforme orientate alla “crescita” e all’”occupazione” (labour flexibility market), anche se queste due “variabili” non torneranno, comunque, in tempi brevi ai livelli pre-crisi. Successivamente l’Italia dovrebbe concordare, con gli altri partner europei, una “struttura dell’eurozona più stabile”, ovvero con migliori “meccanismi di aggiustamento” tra paesi aderenti alla moneta unica.

Molte personalità affermano che un’Unione europea meramente “economica”, come quella attuale, non abbia alcun senso e che non sia sufficiente a risolvere i maggiori problemi degli stati aderenti; la soluzione suggerita per lo più è allora quella di arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Per Spence, però, nell’ attuale situazione, ciò non sarà risolutivo dei problemi delle economie europee: forse lo potrà essere solo in una prospettiva di più lungo termine. Il problema di oggi per tutti i paesi UE è che hanno sì una moneta comune ma hanno anche una situazione “decentralizzata” per quanto riguarda le loro economie reali, compresi gli aspetti che condizionano la produttività e la crescita, come gli investimenti del settore pubblico, la flessibilità del mercato del lavoro, il sistema fiscale, gli investimenti nell’istruzione e nel capitale umano. L’Europa ha così una “struttura” reale che è inevitabilmente destinata a produrre divergenza nella produttività dei diversi sistemi economici, ma che è priva del principale meccanismo di aggiustamento, quello del tasso di cambio, che potrebbe attenuarne le conseguenze più importanti. Quindi, date le condizioni attuali, la moneta unica forza la convergenza in modo doloroso. Bisogna quindi scegliere: o centralizzare e unificare, in modo che le divergenze siano meno forti, o tenersi il decentramento, e trovare più numerosi, o migliori, meccanismi di aggiustamento. Secondo Spence, comunque, a priori, qualsiasi delle due soluzioni non sarà sicuramente migliore dell’altra, per tutte le economie coinvolte.

Economia e Sovranità - Incontro con Ugo Mattei (Rovereto, 25 maggio 2013)

Il professor Ugo Mattei si è ha esordito lamentandosi immediatamente del fatto di non essere stato invitato quest’anno al Festival dell’Economia di Trento per alcune sue “posizioni eterodosse” espresse l’anno prima durante quella manifestazione. Docente di diritto all’Università di Torino é stato tra i promotori del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Ha inoltre ricoperto un ruolo importante nella cosiddetta Commissione Rodotà, che lo ha visto protagonista nell’elaborazione di una cornice giuridica capace di disciplinare la gestione dei beni collettivi. In particolare si è occupato delle loro dismissioni, ambito in cui i governi (nazionali e locali) hanno in passato goduto di piena discrezionalità e arbitrio, mancando qualsiasi principio giuridico ordinatore. Una condizione normativa obsoleta e del tutto inadeguata, ha spesso rischiato di privare la collettività di beni essenziali per la soddisfazione di bisogni fondamentali, costituzionalmente tutelati.
L’intervento vero e proprio è iniziato con quella che lui considera una vera e propria mutazione antropologica, supportata dal diritto e pienamente realizzata negli ultimi 25 anni: la considerazione dell’uomo esclusivamente come consumatore, con tutto quello che ne segue, come l’egoismo dell’“hic et nunc” e la perdita di relazionalità. Questo problema deriva dal vulnus di fondo che sta alla base del rapporto tra diritto e realtà: se il diritto non è altro che il superamento del limite attraverso un’astrazione mentale, il pericolo della fuga dalla realtà è dietro l’angolo. Come esempio Mattei ha parlato del concetto di persona giuridica, un ente la cui durata va oltre la vita delle persone che la compongono, così che il suo valore le trascende, fino ad inghiottirle e farle scomparire, con un passaggio di sovranità pericoloso. In quest’ottica è facile capire come si possa passare dai mercati reali a quelli finanziari. L’uomo rischia di figurare come un atomo alienato e interscambiabile con gli altri, quando piuttosto dovrebbe realizzarsi, comunicando all’interno di una comunità che lo valorizza. Bisogna sempre tener presente che l’essere umano deve essere il perno della bilancia e non una merce di scambio. Mattei ritiene ormai necessaria e non più rinviabile non una semplice ricerca sulle sole cause contingenti dell’attuale crisi, ma un ripensamento generale del “paradigma dominante”, sia sul lato economico che su quello politico e filosofico. L’economia deve tornare ad essere inquadrata per quello che è, un mezzo a disposizione degli uomini e non un loro fine.
L’intervento è continuato con la definizione di “bene comune”, un concetto mentale che però diventa concreto non appena la sua disponibilità viene a mancare, come può succedere, e secondo Mattei in Italia è successo spesso, in seguito a “liberalizzazioni” senza regole. Queste hanno rappresentato quasi sempre delle vittorie di interessi di parte, con privatizzazioni di utili e redistribuzioni di perdite. Lo studioso invita a prendere atto che “gestione pubblica” non significa però  nemmeno “proprietà dei partiti”. La gestione dei beni pubblici deve basarsi su di una logica del tutto diversa, dove la “diffusione” del potere impedisca al “potente” di turno di decidere al posto di o contro tutti e dove la logica della tutela sia basata sulla prospettiva del “perdente”.Il punto di arrivo allora deve essere quello di un modello di socialità e partecipazione diffusa e diretta nella gestione dei beni comuni.
Come ha spiegato Mattei, rispondendo ad alcuni spunti del pubblico, l’Alterfestival può essere un appuntamento critico importante per la nostra società se permetterà la condivisione di un’analisi del funzionamento di quei meccanismi economici che hanno generato l’elusione della sovranità statale.

Economia e Sovranità - Incontro con Massimo Fini e Antonino Galloni (Rovereto, 24 maggio 2013)

Il primo dibattito di Alter Festival ha coinvolto Massimo Fini, giornalista e scrittore, e Antonino Galloni, economista e già funzionario del ministero del Tesoro, sulla tematica che ha dato il titolo alla sua prima edizione.
Massimo Fini ha attaccato duramente il modello di sviluppo occidentale, descritto come un meccanismo di crescita continua e paradossale: una crescita infinita che non si concilia con una quantità finita di risorse, un concetto quello di infinito che possiamo trovare in logica ma che non esiste in natura. Tale visione di una produzione potenzialmente senza limiti, ci condiziona e ci rende inevitabilmente schiavi del PIL, condizionando ogni aspetto della nostra vita e omologando tutte le economie e le culture. All’inizio del suo intervento Fini ha citato Friedrich Nietzsche, cercando, almeno nelle sue intenzioni, di compiere un passo in avanti rispetto all’affermazione di questo filosofo di fine 800, secondo cui Dio sarebbe morto. Secondo l’intellettuale,infatti, non solo Dio sarebbe morto, ma anche tutte quelle espressioni che si riconducono a lui, perché ci richiamano al senso d’infinito, e che manifestano in qualche senso un delirio d’onnipotenza dell’uomo, sono inevitabilmente crollate.

La società occidentale contemporanea vive male perché lo squilibrio che sta sperimentando non è solo economico, ma soprattutto esistenziale. La tecnologia e l’economia hanno emarginato le esigenze più importanti della persona, riducendolo a mero consumatore, per di più incattivendolo attraverso uno stimolo continuo e progressivo dell’invidia, un suo sentimento innato, diventata il valore assoluto della società dell’opulenza, e stressandolo con un dinamismo che non fa parte della sua natura umana. La soluzione “impopolare”che Fini individua è la “decrescita”, nella prospettiva concreta dell’autoproduzione, guardando al medioevo come paradigma, in cui l’economia era basata sulla cooperazione tra gli uomini e non sulla competizione sfrenata. Ad esempio, gli statuti delle corporazioni vietavano di distogliere il cliente dal negozio del vicino, e le terre venivano distribuite con un criterio di giustizia, non di efficienza, così che ogni nucleo familiare potesse avere il proprio spazio vitale. L’esempio del medioevo è evidentemente un paradosso, che permette però di porsi delle domande sul percorso che l’umanità ha intrapreso puntando tutto su una visione dell’economia di stampo liberale e utilitaristica e emarginando altre istanze ed esigenze dell’uomo. Fini ha quindi suggerito agli intervenuti di prendere spunto dal passato, ripercorrendo la storia economica senza fossilizzarsi sul modello attuale, che a suo dire si può riassumere in un triste e cinico “lavora, consuma, crepa!”.
Antonino Galloni ha proposto una lettura della realtà più ottimista di quella di Fini, basata sul fatto che negli ultimi anni, specialmente fra le generazioni più giovani, sembra essere cresciuta una maggiore consapevolezza delle criticità dell’attuale sistema economico-sociale; a suo giudizio non si può pretendere di cambiare tale situazione partendo dalle riforme istituzionali, ma si deve iniziare da una svolta culturale fatta propria dai singoli individui e che coinvolga anche le nuove classi dirigenti del paese, anche quelle politiche, che oggi si dimostrano completamente inadeguate.
La proposta dell’economista è quella di volgersi verso un sistema nuovo, che non sia alternativo al capitalismo ma che vada oltre il capitalistico: se Galloni considera la proposta finiana della decrescita felice nefasta, in quanto insostenibile in termini demografici, ritiene invece indispensabile contrastare l’attuale idea dominante di uno sviluppo incondizionato, acritico e quindi irresponsabile. La giustizia sociale si basa sulla centralità dell’uomo e a questa tutto il resto deve essere subordinato, perfino la sovranità monetaria intesa come possibilità di accesso alle migliori tecnologie disponibili da parte di tutti.
Un’altra semplice quanto interessante constatazione espressa da Galloni è stata quella relativa alla presenza di tantissimo “lavoro non remunerato” (come ad esempio l’assistenza agli anziani, ai bambini, ai malati), che andrebbe organizzato e valorizzato in misura maggiore rispetto a quello che attualmente viene fatto. Ciò permetterebbe alla società di offrire nuovi posti di lavoro, da finanziare, attraverso la sovranità monetaria, con strumenti ad hoc, come ad esempio il reddito di cittadinanza. Non possiamo illuderci di pensare che questo possa avvenire diversamente e magari in base alle attuali regole istituzionali monetarie e alle scelte di politica monetaria da sempre attuate in Eurolandia. La crescita economica tornerà in Italia solo ripartendo dallo sviluppo della domanda interna, legata direttamente alla capacità di acquisto degli italiani e alla capacità del sistema di esportare le sue eccedenze. In tale contesto l’Italia dovrebbe avere quale obiettivo-vincolo finale almeno il pareggio della bilancia commerciale, riducendo se necessario le importazioni.
Aperto il dibattito con il pubblico, Galloni si è concentrato su questioni tecniche, dimostrando come in assenza di regole comuni a livello planetario, la decantata concorrenza fra i diversi sistemi economici, premi di fatto il “produttore peggiore”, cioè quello che riesce a pagare di meno la mano d’opera, che fa lavorare i bambini, distrugge l’ambiente e non tutela la salute.



Sovranità, Economia, Conflitti - Festival dell'Economia e Alter Festival

Presentato per la prima volta nella sede della Borsa Italiana a Milano, il Festival dell’Economia di Trento ha inaugurato la sua prima edizione a giugno 2006 trattando il tema “Ricchezza e Povertà”.
Da allora l’evento, organizzato dalla Provincia Autonoma di Trento, dal Comune di Trento e dall’Università di Trento e progettato da Editori Laterza in collaborazione con il Gruppo 24 Ore, accoglie in palazzi storici, chiostri e sale riccamente decorate, tutti a pochi passi dal centro, una kermesse internazionale per discutere di economia.
Le edizioni successive hanno sviluppato ogni anno argomenti diversi, aprendosi a pluralità di idee e ambiti culturali. Il tema affrontato quest’anno è stato la “Sovranità in conflitto”. Economisti, politici, politologi, sociologi, giornalisti e imprenditori hanno discusso appassionatamente in pubblico, senza mai fermarsi alla semplice teoria ma accompagnandola dalla descrizione di fatti sociali, di ragioni culturali, di esperienze storiche e politiche, che hanno affascinato e coinvolto un pubblico molto ampio e trasversale. Motivati dalla voglia di capire di più e informarsi, molti visitatori, il cosiddetto “popolo dello scoiattolo” (il simpatico animaletto è il simbolo della manifestazione), sono arrivati da lontano per ascoltare relazioni e dibattiti di personalità tutte di elevato spessore culturale. In un clima informale, agli interventi hanno fatto seguito le domande del pubblico che, di volta in volta, ha instaurato un confronto alla pari con i vari relatori. Come ogni anno il Festival dell’Economia non si è fermato alle sole conferenze, ma è continuato anche all’aperto: informazioni, confronti, cinema, laboratori, approfondimenti di ogni genere hanno animato gli angoli del centro storico della città.
Insomma un festival internazionale, pluridisciplinare e multiculturale, dove hanno trovano spazio voci e idee tra loro anche contrapposte e dove si sono potuti ascoltare grandi pensatori e intellettuali provenienti da tutto il mondo. Il risultato, anche secondo le intenzioni dichiarate dagli organizzatori, avrebbe dovuto essere stato un festival plurale che rifiuta il “pensiero unico” e l’”indottrinamento”, costruendosi sul dialogo e il confronto e finalizzato alla diffusione anche tra la gente comune del sapere economico, in modo da favorire sempre di più la corrispondenza tra i bisogni reali dei cittadini e le scelte economiche dei vari policy makers.
Non tutti però hanno la stessa opinione sulle vere intenzioni e sui reali risultati raggiunti da questa manifestazione. Da quest’anno, infatti, altri organizzatori, questa volta non più enti pubblici e gruppi economici editoriali ma per lo più gruppi di cittadini appartenenti trasversalmente a movimenti della società civile, hanno dato vita a Rovereto, una piccola cittadina a meno di trenta chilometri a sud di Trento, all’Alter Festival, con l’obiettivo dichiarato di porsi in netta contrapposizione alle posizioni “politically correct, comunque sempre propagandate, a loro dire, dal Festival dell’Economia di Trento. Data la quasi totale mancanza di sponsor e la conseguente relativa scarsità di risorse finanziarie disponibili, gli appuntamenti di questo nuovo evento sono stati più ridotti sia come numerosità sia come diversità di contenuti, nonché molto più concentrati come orizzonte temporale, rispetto al proprio più celebre “antagonista”. L’intento della manifestazione, così come dichiarato, è quello di svolgere un ciclo di dibattiti in materia economica, volto a contrapporre al “pensiero unico dominante” la divulgazione di teorie e pensieri di intellettuali ed “economisti eterodossi”, con particolare riguardo ai temi della macroeconomia e della geopolitica. Oltre quindi a promuovere un approccio alle tematiche indirizzato a tutta la cittadinanza, perché basato su un metodo ed un linguaggio semplice -così come fa anche il Festival dell’Economia- l’obiettivo di questo nuovo evento è però quello di ampliarne il dibattito, approfondendo e stimolando l’”analisi critica” nei confronti della realtà economica e politica attuale, nonché delle sue prospettive di sviluppo future. Si è voluto dare spazio e visibilità a pensieri alternativi a quello imperante, proponendo un tema specifico, “Economia e Sovranità”, che ha svolto il ruolo di leitmotiv nei vari interventi; in pratica si sono invitati i vari relatori a confrontarsi sul funzionamento di quei meccanismi economici che generano erosione di sovranità in uno Stato e su come tali meccanismi possono essere limitati o addirittura bloccati.
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Di seguito riportiamo cinque recensioni curate da Marco Piazza e da Michele Rizzolli, che ringraziamo vivamente per la capacità di elaborazione ed espositiva, in cui sono rapidamente raccontate le argomentazioni sviluppate in alcuni importanti appuntamenti dei due Festival e a cui hanno direttamente partecipato i due colleghi. Come abbiamo già sottolineato in passato, il rapporto fra “economia” ed “etica” e “cittadini” e “centri di potere” è uno degli snodi fondamentali per poter comprendere il mondo moderno e quello futuro. Su tali questioni il SIBC intende tornare a vari livelli anche in futuro e invita pertanto tutti coloro che parteciperanno ad eventi di approfondimento e di analisi attinenti al citato rapporto – di qualunque orientamento politico e sociale – a darcene conto in scritti o riflessioni da condividere tra tutti i lavoratori del nostro Istituto.

Abbandonare l’euro? – James Alexander Mirrlees (Trento, 2 giugno 2013)

Presentato da Tito Boeri, il Premio Nobel in economia del 1996 ha cercato di spiegare perché l’idea di abbandonare l’Eurozona, che finora è stato un tabù, non solo italiano, del dibattito politico, risulterebbe una decisione positiva per molte economie europee, tra cui sicuramente l’Italia e la Spagna. Secondo sir Mirrless nell’area dell’euro vi sono sistemi economici che devono rendere meno caro il prezzo dei beni che producono e contemporaneamente aumentare la base monetaria per finanziare una loro necessaria espansione fiscale. Il dilemma è come raggiungere questi due obiettivi senza distruggere la fiducia internazionale nei confronti del paese che intraprende questa strada, anche perché in numerose realtà i problemi al sistema produttivo sono accompagnati da dati occupazionali e fiscali molto pesanti.
Per l’economista l’errore fatale dell’attuale politica europea è quella del timingdelle misure di austerità: in una fase di depressione, come quella che stiamo attraversando, non è proprio il caso di attuare politiche che comprimono ulteriormente l’economia reale. L’Europa è una regione del mondo che, nella fase del ciclo in cui si trova, dovrebbe incrementare i suoi debiti pubblici nazionali piuttosto che ridurli: più cose si riescono a fare sul fronte della spesa in questo momento, più breve sarà il tempo che ci separa da quello in cui si potranno di nuovo stringere i cordoni della borsa pubblica.
Alla domanda se uscire dall'euro significhi fuggire, Mirrlees osserva che la crisi si può affrontare solo resistendo ad essa, ma combatterla può voler dire anche considerare percorribile l’”opzione della fuga". Ciò, a suo avviso, non costituirebbe un “ricatto”, ma semplicemente una specie di “negoziato” tra i paesi oggi in maggiore difficoltà economica, con elevati tassi di disoccupazione, e la Germania, che permetterebbe ai primi di salvare i loro sistemi economici. Quest’ancora di salvataggio dovrebbe essere poi accompagnata da politiche statali di espansione della domanda e da un taglio delle tasse e degli stipendi dei lavoratori con professioni poco qualificate e a bassa produttività. Il tutto per raggiungere un livello di piena occupazione. Mirrlees si dichiara apertamente un sostenitore del welfare state, per cui diminuzioni delle prestazioni di assistenza da parte dell’autorità pubblica sono ritenute decisamente inopportune. Ma come si fa, si chiede il Premio Nobel, a porre fine alle politiche europee di austerity se non lasciando l’euro? Ciò non sarebbe solo una possibilità teorica, anche se oggi sarebbe più difficile di quanto invece è stato ieri entrarci. Con l'euro i paesi sono entrati in un sistema di regole molto severo ed hanno in sostanza dovuto adottare la politica fiscale voluta dalle autorità nazionali tedesche. L'espansione di cui questi Paesi hanno invece bisogno deve essere finanziata sul versante monetario. L’economista scozzese ha nella sostanza illustrato un quadro generale del sistema economico europeo a geometria variabile, dove alcuni Stati “non se la cavano poi troppo male” (Germania, Polonia e Regno Unito) ed altri che hanno invece subito un crollo dei propri investimenti reali, con conseguenze “drammatiche” sull’occupazione e “meno drammatiche” sul loro livello di produzione. Per quanto riguarda il nostro paese, Mirrlees ritiene che il debito sia sempre stato un problema rilevante per il nostro sistema economico, ma che non è dato sapere con esattezza fino a che punto: “è difficile capire se è di per sé stesso un così grave problema”. Ci si deve preoccupare così tanto del debito? Sì sicuramente esiste un problema default, con tutte le spiacevoli conseguenze del caso, ma il debito di per sé è solamente un segnale del fatto che le istituzioni politiche spendono senza avere un controllo sulla spesa. 
La cosa più importante nella situazione attuale non è quella della riduzione del debito, ma quella di riportare il livello degli investimenti a quello antecedente l’inizio della crisi. La difficoltà sembra rintracciabile nella mancata volontà da parte dei soggetti finanziari, in primis delle banche, di erogare finanziamenti: la stessa politica monetaria ha fallito nel suo tentativo di intervento su questo versante. C’è chi pensava che un tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento della BCE attorno allo zero avrebbe aiutato in questa direzione, ma non ci si è chiesti se le banche avessero accettato tale politica, ovvero se avessero o no ripreso a finanziare i progetti delle imprese e delle famiglie. Il problema rilevante per sir Mirrless, infatti, è quello di capire come incoraggiare gli investimenti produttivi.  Una possibilità sarebbe quella di avere delle assicurazioni sui prestiti effettuati dalle banche, un’altra quella di avere degli istituti di credito pubblici.
La conclusione dello studioso è che oggi, forse, sono le stesse imprese a non voler più investire, perché ritengono probabile una prossima uscita dalla crisi e conseguentemente un prossimo rapido innalzamento del livello dei tassi di interesse, che ridurrebbe drasticamente i loro livello di profitti attesi.
In conclusione l’opzione di abbandonare l’euro potrebbe riguardare più di un paese sfiancato dalla crisi, dalla recessione e dalla deflagrazione dei debiti sovrani. Lo sconquasso dei sistemi economici è finora stata affrontato con “rigore feroce” da FMI, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Un rigore però che non si sa bene dove porterà: non si sa infatti se le misure adottate porteranno effettivamente ad avere i “conti in ordine”, ma nel frattempo sicuramente si saranno depressi i consumi e si saranno distrutti milioni di posti di lavoro.

Processo alla Finanza – Salvatore Rossi (Trento, 1 giugno 2013)

Coordinato dalla giornalista Tonia Mastrobuoni, l’intervento di Salvatore Rossi al Festival dell’Economia è avvenuto all’interno della sessione “Incontri con l’autore” e si è articolato attraverso un dialogo con Marco Onado e Pier Carlo Padoan, per la presentazione ufficiale dell’ultima fatica letteraria del Direttore Generale della Banca d’Italia. Il libro “Processo alla Finanza” parte dalla constatazione che in tutto il mondo dopo lo scoppio dell’ultima crisi, i cui postumi sono ancora ben visibili, molte voci, sia di gente comune sia di insigni intellettuali, si sono levate a esecrare il mostro finanziario e l’impotenza dei popoli verso di esso. È questa una moderna caccia alle streghe, e quindi la finanza rappresenta la foemina instrumentum diabolicontemporanea o è invece una sacrosanta indignazione contro autentici soprusi? Su tale domanda fondamentale l’autore svolge una serie di riflessioni incastonate in una struttura formale che riproduce un vero e proprio processo, con tutte le garanzie procedurali democratiche, in cui si da equamente la parola all’accusa e alla difesa. L’idea dell’autore è stata quella di istruire un processo più articolato e meditato, con il beneficio del maggior tempo trascorso, di analogo artificio presentato nel 2009 proprio al Festival dell’Economia di Trento e di cui il professor Onado rappresentava la pubblica accusa. I passi procedurali si realizzano tramite l’identificazione dell’imputato, l’esposizione progressiva dei capi di accusa, dei fatti, degli argomenti dell’accusa e di quelli della difesa, cui si susseguono delle riflessioni che cercano di sceverare le buone ragioni dalle cattive sia nell’accusa sia nella difesa, lasciando comunque ai lettori, i giudici di questo processo, il compito di formarsi il proprio personale verdetto finale.
L’intento è stato quello di non precostituire una tesi preconcetta, un attacco demagogico alla finanza e a chi vi lavora o una loro difesa d’ufficio, ma piuttosto quello di contribuire a cercare di capire la realtà, usando tutta la neutralità ideologica ed emotivapossibile e attraverso un discorso comprensibile anche a chi tecnico non è, e non vuole diventarlo, ma vuole semplicemente formarsi un’opinione su una questione che è al centro del dibattito pubblico in tutto il mondo da almeno cinque anni.
Tre sono le categorie individuate per i potenziali imputati: i soggetti professionali privati che operano in campo finanziario (banche, gestori di fondi di investimento, di fondi pensione, di fondi sovrani, di hedge funds, amministratori di agenzie di rating, etc.), coloro che hanno responsabilità amministrative di regolazione e supervisione degli intermediari e dei mercati finanziari (organismi di vigilanza), nonché coloro che avendo responsabilità politiche contribuiscono a formare il quadro normativo-istituzionale di riferimento (governi e parlamenti). Tuttavia, poiché l’impressione è che la gente ce l’abbia con la finanza in quanto sistema, ossia in quanto abito mentale o schema concettuale e di comportamento, l’attenzione nella prima parte si incentra sul significato generale del termine finanza, indicata come insieme di strumenti per “traslare nel tempo e nello spazio la possibilità/capacità di procurarsi cose utili nell’immediato”. 
Si invita poi il lettore a riflettere su tre concetti che vi sono in qualche modo connaturati quali quello di moneta, di credito e di assicurazione e agli elementi che questi fattori hanno in comune, ossia il fattore tempo e il nesso rischio/rendimento. Il trascorrere del tempo e i mutamenti che questo può portare, vengono appresi e interiorizzati dall’uomo attraverso la leva psicologica più potente ed efficace: quella dei desideri e dei bisogni. Imparare a proiettare un desiderio nel futuro o a prevedere un bisogno è un “salto evolutivo fondamentale”: se mi si delinea nella mente un desiderio o un bisogno futuro devo mettermi nelle condizioni di soddisfarlo. In tale maniera “l’uomo esce dalla barbarie dell’imminenza, dalla ferinità di una vita regolata dal consumo di sopravvivenza, che si esaurisce nell’attimo presente” (S. Rossi in “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale”). Il conflitto tra rischio e rendimento pone il problema di evitare la possibilità sempre concreta di non riuscire a soddisfare tale necessità e l’esigenza di massimizzare tale soddisfacimento attraverso un’opportuna valutazione e diversificazione del proprio portafoglio.
Cinque sono i capi d’accusa a carico della finanza: è destabilizzante, è irreale, è incomprensibile, è prodiga ed è irragionevole. 
La finanza può destabilizzare intere economie e società e addirittura tutto il mondo. Dopo il fallimento della Lehman Brothers il PIL delle economie avanzate si è bruscamente ridotto con effetti ancora più gravi sul livello occupazionale e sulle casse pubbliche. È indubbio che nelle economie di mercato capitalistiche l’apparato finanziario generi ogni tanto delle esplosioni di instabilità che causano forti danni economici, impoverimento e fratture sociali. 
L’accusa che la finanza sia irreale risale all’idea della distinzione concettuale tra “economia reale” ed “economia finanziaria”, in particolare la prima definita come quella parte dell’economia coinvolta nella produzione effettiva di beni e di servizi, la seconda individuata come quella parte che consiste nel comprare e vendere sui mercati finanziari. Che la finanza produca servizi per la società, i quali fanno parte a pieno titolo della produzione nazionale non sembra però poter essere messo in dubbio. La distinzione grossolana tra economia reale, buona e utile, e finanza irreale, cattiva e dannosa, contiene pertanto una contraddizione interna, perché la stessa attività di comprare e vendere sui mercati finanziari è essa stesso un servizio, prodotto a beneficio di qualcuno disposto ad attribuirgli un valore, anche se poi nessuno ci assicura che il valore attribuito ai servizi della finanza nei conti nazionali sia corretto ed è questo forse il vero problema. 
La finanza risulta poi incomprensibile a causa del proliferare dei cosiddetti strumenti finanziari complessi, come ad esempio i derivati, a cui lavora ormai un esercito di matematici, fisici e ingegneri, il cui intento di distribuire il rischio non lo fa però scomparire miracolosamente. Tali strumenti possono venire facilmente trasformati da strumenti assicurativi in scommesse buone per fare del puro gioco d’azzardo, in alcuni casi persino truccato. Bisognerebbe allora che un’autorità pubblica facesse in modo, con regole appropriate e attenti controlli, che strumenti nati per accrescere il benessere della società non degenerino a vantaggio di pochi e a svantaggio di tutti gli altri e che le compravendite di derivati non avvengano over-the-counter, ma su mercati ufficiali e regolamentati attraverso un’intesa internazionale. Si sente inoltre l’esigenza di un’autorità pubblica globale che vigili sulla concorrenza nel mercato dei ratings e sulla correttezza di chi vi opera; bisogna insomma controllare le agenzie di rating che svolgono l’importante funzione di convogliare valutazioni professionali su chiunque intenda contrarre un debito a beneficio della sterminata platea dei potenziali creditori. Il mercato infatti è oggettivamente distorto dal fatto che in molti casi a pagare il servizio non sono i creditori ma gli stessi esaminati; inoltre la situazione risulta ulteriormente aggravata dal fatto che circostanze storiche hanno limitato a tre il numero degli operatori e li hanno concentrati in un solo paese. Delle cartolarizzazioni inoltre se ne è fatto un abuso sistematico, tollerato, quando non incoraggiato, da chi aveva invece la responsabilità di fissare paletti regolamentari e di vigilare sul loro rispetto. 
La finanza è prodiga, nel senso che i guadagni dei professionisti della finanza ai livelli più alti hanno avuto un’escalationincontrollata, ostentatamente spropositata. 
La finanza è irragionevole perché appare come un terreno di scorrerie di branchi in preda a emozioni irrazionali (euforia, panico e credulità), in cui facilmente una credenza diventa un feticcio e con la stessa rapidità, per uno stormir di fronde, il feticcio viene abbattuto e si afferma la credenza contraria, con lo stesso stolido conformismo.

I suggerimenti finali per il lettore, che formulerà il suo personale verdetto, sottolineano come lo sviluppo dei sistemi economici sia strettamente correlato allo sviluppo finanziario, ossia come la triade credito, moneta, assicurazione sia centrale per far funzionare e crescere qualsiasi economia, ovvero per poter aumentare le opportunità di benessere di tutti, purché si riesca a evitare disastri come quello che ha colpito il mondo nel 2008. Il problema diventa allora come riuscire a tenersi i benefici permanenti della finanza, evitando, il più possibile, il rischio che un suo cattivo uso causi, in un momento, tali e tanti danni da distruggere in poco tempo i benefici guadagnati in lunghi decenni. Il focus per Rossi deve allora concentrarsi sul punto di equilibrio tra libertà e regole. Questo, a suo giudizio, deve essere collocato più dalla parte delle regole che non da quella della libertà di azione nei mercati e ciò per due principali ordini di ragione. La prima perché la materia oggetto degli scambi di tipo finanziario è in ultima analisi la fiducia, che è impalpabile ma che è anche molto facile da perdere e che comunque rappresenta la base su cui poggia ogni comunità umana. La seconda perché è nella natura umana abusare dello strumento del debito e, di converso, del credito e perché è cruciale per tutte le economie bilanciarne i rischi e le opportunità. Mettere l’accento sulle regole per ovviare al fallimento del mercato non è quindi per l’autore un precetto da economia pianificata, ma una necessità essenziale per ogni sistema economico e un caposaldo del pensiero liberale.

giovedì 7 marzo 2013

Subordinazione della vita al lavoro


Uno dei modi più antiquati di fare male alle donne è non raccontare loro (tutta) la verità. Il fatto che ciò avvenga su un “volantino sindacale”, per di più scritto da una donna,  aggiunge solo quel pizzico di sadismo in più di cui nessuno sentiva realmente il bisogno.

Si sostiene infatti, sul volantino della Cisl del 6 marzo, che la Banca avrebbe accolto già da mesi “tutte le richieste” sul tema dell’orario di lavoro(avanzate dal tavolo Cida-Cgil-Cida-Dasbi-Fabi su suggerimento della Commissione Pari Opportunità, ossia - per metà - dalla Banca stessa, ndr). 
Accordo che non vedrebbe la luce per l’opposizione dei cattivoni “Falbi&Sibc&Uil” che fanno opposizione “a prescindere”.

Ora, senza fare polemiche con chi sta trascinando a picco un sindacato che aveva una sua storia rispettabilissima, ma è ormai ostaggio di un manipolo di conquistadores, ci limitiamo a ribadire - per chi non lo avesse capito - che noi siamo pronti a firmare tutte le proposte della Banca in tema di maggiore flessibilità, in ingresso, in uscita, in pausa pranzo, tutte le proposte in tema di telelavoro, lavoro a distanza e banca del tempo, tutte le proposte sul part-time, tutte le proposte in materia di tutela della genitorialità (invero scarsissime) e del diritto allo studio.

Siamo disposti a firmarle anche se rappresentano una versione molto scolorita di alcune (e solo di alcune!) delle proposte di grande spessore che il tavolo Falbi, Sibc e Uil aveva avanzato esattamente un anno fa. 

Purtroppo, NON POSSIAMO FIRMARLE, per il semplicissimo motivo (che quel volantino curiosamente omette) che la proposta della Banca - allo stato - prevede ben altro. 
Prevede, per esempio, che i possibili “diritti di flessibilità oraria” possano essere trasformati - a scelta di ciascun Capo struttura - in “dovere di rigidità oraria”, e ciò NON in via del tutto eccezionale, bensì per quote significativissime di personale, per periodi non limitati, per motivazioni evanescenti, in cambio di niente. Perdendo non solo le nuove flessibilità, ma persino quelle già oggi esistenti! (e sottoponendo il lavoratore al potere di ricatto dei Capi, aumentato a dismisura dalle nuove proposte in tema di valutazione e conseguente busta paga, ndr).

Pensate a una donna (ma anche a un uomo) che organizza la sua vita per prendere o portare i bambini a scuola, o occuparsi dei genitori anziani, e che - per inappellabile decisione del capo del Servizio o del direttore di Filiale - si veda costretta/o per 20 giorni, poniamo, a irrigidire il proprio orario in modo inconciliabile con i suoi doveri di cura. Questa non è “conciliazione fra vita e lavoro” è “subordinazione della vita al lavoro”!

Il tema quindi è molto semplice: si vuole certificare la possibilità, per i capi delle strutture, di scaricare sul personale l’inadeguatezza propria, della dotazione quantitativa di risorse e/o dell'assetto organizzativo. Questo è il nocciolo della questione. Paghiamo comunque noi. Vi pare giusto? E’ la festa della donna, o qualcuno vuole “fare la festa” alla donna (ma anche agli uomini, ndr)? 

Spiace che sia un volantino sindacale a farsi portavoce, ancora una volta, della posizione-Banca. 
A fronte di “zero potere contrattuale” dei sindacati per contrattare (o addirittura per conoscere!!) quale e quanto personale deve essere addetto a ciascuna struttura e quali dotazioni infrastrutturali vengono messe a disposizione (procedure, macchinari, logistica etc), si vuole consegnare il potere di disporre coattivamente delle persone (PERSONE!!) che lavorano in ciascuna struttura, senza limiti temporali, senza motivazioni sostanziali e soprattutto senza neanche dover riconoscere un indennizzo economico per le rigidità orarie loro imposte. 

Sia detto per inciso, questa previsione sancirebbe anche il fatto che le mansioni superiori, ma anche inferiori, diventino una regola: essendo infatti pacifico che sia impossibile riprodurre per quote di personale lo stesso assetto gerarchico e funzionale di una struttura a pieno organico. Ennesima regalia a mamma Banca, alla quale opponiamo la nostra convinzione che firmare proposte peggiorative delle condizioni di lavoro sia estraneo al mestiere di sindacalista. Come noi lo intendiamo, almeno.

Provi, la Cisl insieme ai suoi compagni del tavolo dei direttivi, a proporre alla Banca il contraccambio di quanto fecero sul "pacchetto pensioni": si facciano subito dare da mamma Banca tutto il “pacchetto flessibilità”, e noi in cambio partecipiamo a un “Commissione tecnica paritetica di studio” sulle esigenze della Banca. Affidiamoci alla buona fede (?) dell’altro una volta per uno.      

Molestare le donne facendo credere che ci sia chissà quale vantaggio a firmare proposte oscene di cui nascondono volutamente le mille insidie (ma gli alleati sono tutti d'accordo? ndr) è un modo indegno di “festeggiare” l’8 marzo.
Noi invece lo facciamo raccontando le cose come stanno, impegnandoci a migliorarle. Ogni giorno.

Alberto Antonetti

8 marzo delle persone


8 marzo festa delle donne,
8 marzo giorno in cui, si sposta per alcune ore l’attenzione sul mondo al femminile, sulle conquiste ottenute, conquiste economiche, sociali, culturali,
8 marzo giorno in cui ripensiamo alla fatica d’esser donne, a quanto cammino c’è ancora da fare per valorizzare le diversità di genere, al di là delle abitudini e delle ricorrenze.

In realtà l’8 marzo dovrebbe essere un giorno in cui la donna possa riprendersi anche solo per “un giorno” il suo tempo, giusto il tempo che serve a tirare un respiro profondo, a guardarsi per un attimo indietro a riflettere su ciò che è stato fatto e subito ripartire più attiva e più combattiva di prima.
Sì, perché non possiamo stare nell’immobilismo dei diritti acquisiti, troppe sono ancore le cose da fare, perché troppe, e da troppo tempo, sono le cose negate alle donne, sia in occidente che in altri paesi.

In Italia il movimento “Se non ora, quando” ha portato in piazza una moltitudine di donne, le quali  hanno dimostrato al Paese che anche nel silenzio, non hanno mai smesso di lavorare per loro stesse, per la propria famiglia, la propria comunità e per la società tutta, e che forse sia giunto il momento in cui gli uomini debbano smettere di pensare alla donna come corpo da sfruttare e come capo espiatorio dei propri fallimenti e frustrazioni, o come compagna utile a partorire prole e pietanze.
Le donne non chiedono la luna, chiedono l’opportunità di essere riconosciute come teste pensanti, di essere riconosciute come persone in grado di apportare il proprio contributo alle scelte politiche e sociali del proprio paese, anche perché di fatto esse in parte lo fanno già con la cura dei figli e della famiglia, alleggerendo allo Stato il peso del welfare.

Proprio perché esse vivono sulla propria pelle qualsiasi problema del primo nucleo della società, cioè della famiglia: esperimenti di ciò che necessita alla conduzione di una vita dignitosa per sé, per il partner, per i figli, e adesso anche per i familiari sempre più anziani, chiedono opportunità di accesso al lavoro e pari riconoscimento economico al proprio lavoro, chiedono maggiore possibilità di accesso all’istruzione e alla cultura, chiedono pari opportunità per le persone diversamente abili in quanto anche loro figli di una società civile con uguali diritti di uomini e donne che si ritengono “abili”, e le esperienze dimostrano che persone con gravi malformazioni anche sin dalla nascita, se amorevolmente e correttamente assistite e curate possono rivelarsi persone in grado di apportare notevoli contributi anche allo sviluppo culturale e scientifico di un paese, se non del mondo intero, cito ad esempio il fisico siracusano Fulvio Frisone.

Le leggi sono state fatte, esistono già: l’art. 3 della Costituzione Italiana garantisce uguaglianza fra le persone, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, e la Repubblica  ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza delle persone.
Di fatto tutto ciò risulta molto difficile da realizzare, nonostante l’istituzione di un Ministero delle Pari Opportunità, nonostante l’istituzione di Codici di Pari Opportunità, di Commissioni Pari Opportunità (o forse proprio lo testimoniano l’esistenza di un ministero e di un codice delle Pari Opportunità), nonostante le raccomandazioni in tutti i luoghi di lavoro per garantire pari opportunità, garantire buone prassi ed opportunità per un numero sempre crescente di donne - meritevoli - a cui permettere di arrivare in posti decisionali e di comando (ma a ben guardare c’è sempre un uomo sopra di loro che le ha volute lì, o che le coordina, dirige, manipola). Non abbiamo mai avuto un Presidente del Consiglio donna, mai un Presidente della Repubblica o un Governatore della Banca d’Italia donna (ma forse neanche un capomafia...).
Ultimamente siamo riusciti a ricostituire il monocolore maschile nel Direttorio.

Sono ancora troppi gli stereotipi presenti nei nostri modi di pensare e di agire che ci impediscono di guardare all’altro come uguale a noi pur nella sua diversità, con le stesse potenzialità e fragilità.
E neanche la classe politica, per quanto rivestita di “quote rosa”, negli ultimi 20 anni in Italia (o forse 60?) ha saputo essere lungimirante, ha saputo lavorare per assicurare che i principi della Costituzione si traducessero in vita reale, in fatti della quotidianità (l’uguaglianza di genere, di razze, ecc.)
Ancora oggi non c’è chi, in un contesto lavorativo di qualunque natura (pubblico, privato, operaio, intellettuale), non pensi che una donna costituisce un rallentamento nella produttività, non consideri la maternità come un costo, la riflessività come ostacolo, i tempi di vita contrapposti ai tempi del lavoro e forse incompatibili...
Le leggi non hanno modificato questo substrato culturale che accomuna un po’ tutte le colorazioni politiche, sebbene idealmente alcune propugnino l’effettiva uguaglianza negli statuti e nei programmi.
La realtà di questi ultimi 20 anni ha ricacciato l’immaginario collettivo nei confronti della donna verso i più primordiali istinti dell’uomo cacciatore.
E non è possibile attribuire le responsabilità di tale regressione alle donne che per fragilità emotive e culturali hanno svenduto corpi e dignità. La responsabilità è sempre collettiva riguardo alle carenze culturali che hanno determinato tutto ciò, che hanno ridotto il valore della persona al valore del denaro e della transitoria bellezza fisica.
È vero che la stagione delle rivendicazioni violente della stagione del femminismo può considerarsi superata, ora lo strumento deve essere quello della consapevolezza del valore assoluto della persona, al di là del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle condizioni personale e sociali.

Annamaria Papaleo 


DICONO DA FUORI - Spostare l'attenzione: dal genere alla persona

dal blog di Marcello Adriano Mazzola, avvocato, su ilfattoquotidiano.it


Un Paese fondato sulla disuguaglianza, sulle ingiustizie, sulla non tutela dei diritti, sull’arroganza e sulla corruzione, sulla illegalità diffusa, sulla furbizia. Un Paese incattivito, affamato, rabbioso. Un Paese che ha l’opportunità di cambiare volto, identità. 
....
In quest’ultimo mese qualche presunto leader ha farfugliato monosillabi come “lavoro, Imu, riforme” ma ben pochi sono andati oltre una fonetica imbarazzante, articolando idee e una visione del futuro.
Eppure c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma nell’imbarazzo c’è qualcosa di più importante: l’uguaglianza. L’art. 3 della Costituzione recita che tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge(uguaglianza formale, primo comma). E che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano l’eguaglianza e di sviluppare pienamente la personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale, secondo comma). Poi l’art. 8 sancisce che tutte le confessioni religiose, diverse da quella cattolica, sono egualmente libere davanti alla legge.

Ma credete veramente che tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge quando ogni giorno si consumano ingiustizie in nome delle leggi create volutamente diseguali, applicate in modo diseguale, ostacolando l’accesso alla giustizia? Ma credete veramente che lo Stato (questo) rimuova gli ostacoli che limitano l’eguaglianza invece di alimentare (con una vera e propria ingegneria giuridica, amministrativa, burocratica, di posizioni apicali e non) la disuguaglianza cementando i privilegi della cricca che si è impossessata del potere e lo gestisce con una rete massonica e familistica? Ma credete veramente che tutte le confessioni religiose siano paritarie rispetto a quella cattolica che ammorba ogni nostro dibattito, aula, spazio fisico e mentale, condizionando la nostra libertà?
Ed allora ecco che occorrerebbe una classe politica onesta, laica, etica, sognatrice capace di attuare finalmente (dopo oltre 60 anni) l’art. 3 della Costituzione. C’è invece chi vuole cambiare la Costituzione. Io chiedo invece che venga attuata. Di insegnarla (veramente) e di impararla a memoria.
Uguaglianza significa eliminare privilegi impropri e consentire a chiunque di realizzarsi, per meriti propri, costruendosi il futuro. Significa tutelare i più deboli ma consentire che escano da tale stato di debolezza, non mantenendoli deboli.

E qua, a margine, si apre una finestra sulle Pari Opportunità. In virtù della normativa europea il principio di pari opportunità è assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale. In Italia è invece rimasto ancorato al decreto legislativo n. 198/2006 noto come “Codice pari opportunità tra uomo e donna”, finalizzato a rimuovere ogni discriminazione tra uomo e donna. Anche questa limitata sensibilità offre l’idea della arretratezza culturale che tutt’ora permane. Da noi Pari Opportunità ancora oggi sono identificate come rivendicazione delle donne ad un maggior potere. L’erosione degli spazi dell’uomo.  

Qualcosa finalmente sta cambiando e finalmente l’attenzione si sta spostando sulle Pari Opportunità tra soggetti deboli e soggetti forti, in quanto questi ultimi ostacolano i soggetti deboli. Non è un problema di genere. Continuare a ricondurre la discussione alla discriminazione tra uomo e donna non è solo riduttivo ma è ancor peggio, fuorviante. Ed è disonesto perché si induce a credere che in Italia l’uomo continui a prevaricare la donna in quanto tale, in ogni campo, lasciando intendere che la donna si trovi in una sorta di medioevo. Tale credo, continuamente dopato dalla disinformazione, crea mostri come il diritto di famiglia diseguale, alimentato da una prassi giurisprudenziale indecente. Dove si consumano aberranti disparità (si pensi all’affidamento condiviso ma di fatto esclusivo).
Dobbiamo dunque spostare l’attenzione, così come da sempre avviene oltreconfine, dal genere alla condizione della persona. Solo così potremo realizzare le vere Pari Opportunità.


COSTITUZIONE - Articolo 37


La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

LA POESIA - Dove sono quei canti? (Micere Mugo, Kenya)


(traduz. dall’inglese di M.A.Saracino)

Dove sono quei canti
Che mia madre e la tua
Cantavano sempre
Quei ritmi adeguati
A ogni aspetto della vita?

Che cos'è che cantavano
Mentre mietevano il granturco, trebbiavano il miglio, ammassavano il grano…

Che cos'è che cantavano 
Mentre ci facevano il bagno, o ci cullavano per farci dormire…
Che canzone cantavano
Mentre giravano la minestra
….
Che cos'è che cantavano
Durante le cerimonie
Della nascita
Del battesimo
Della seconda nascita
L'iniziazione….?
Come facevano a modulare lo ngemi
Come faceva
Quel canto di guerra?
Com'era quel canto di nozze?
Canta per me
Un canto funebre
Te lo ricordi?

Canta
Perché io ho dimenticato
Il canto di mia madre
Così i miei figli
Non lo impareranno mai

Questo io mi ricordo:
Mia madre mi diceva sempre
Canta figlia mia, canta
Crea il tuo stesso canto
E cantalo
Ma fa che quel canto sia pieno di anima
E che la vita stessa
Si metta a cantare

mercoledì 13 febbraio 2013

LA RIFLESSIONE - Europa sì... ma quale?

Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano. (Elias Canetti)
«Male! male! Come? Se ne sta forse tornando ... indietro?»  Sì! Ma lo comprendete male, se vi lagnate di ciò. Arretra, ma a somiglianza di chiunque voglia spiccare un gran salto ... (Friedrich Nietzsche)


La storia dell’Europa unita inizia a Roma il 25 marzo 1957, con la firma del trattato che istituisce la Comunità economica europea e di quello che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica.
Per “Trattato di Roma” si intende il primo di questi documenti, il cui nome è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), noto come “Trattato di Maastricht” e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) o “Trattato di Lisbona”.
L’idea dei padri fondatori è quella di inaugurare una fase storica di pace e cooperazione, dopo le due disastrose guerre mondiali, combattute principalmente sul suolo del Vecchio Continente. Il compito che ci si prefigge è immane, seppure i paesi membri vantino radici (greco-romane e giudaico-cristiane) comuni. Superare secoli e secoli di divisioni e scontri è purtroppo tutt’altro che semplice. Col tempo si decide di iniziare concretamente l’opera, con l’obiettivo di creare un’area valutaria (e una moneta) comune. Dopo i primi tentativi (“serpente monetario” etc.) nel 1979 nasce lo SME, al quale aderisce anche l’Italia. Per l’Italia l’adesione allo SME rappresenta una vicenda con alti e bassi: dal “divorzio” tra Tesoro e Banca Centrale del 1981 (forse “primo atto” della creazione della moneta comune nel nostro Paese) alla drammatica crisi del 1992. La convergenza però almeno apparentemente funziona e quindi nel 1998 l’Italia entra a pieno titolo nell’area della nuova moneta unica, l’Euro. La presenza nell’area dell’euro comporta però anche oneri gravosi, come ad esempio il rispetto dei “parametri” espressi nel Trattato di Maastricht, i cui due più noti sono quelli del 3% tra deficit e Pil e del 60% tra debito e Pil, riaffermato con forza anche nell’ultimo “fiscal compact”. Il primo parametro è stato spesso rispettato nel corso degli anni, anche perché l’Italia vanta dal 1991 un più o meno consistente “avanzo primario” nei conti pubblici a cui però si affianca un pesante onere per interessi, in netta ascesa dall’inizio degli anni 80 (dopo il “divorzio”). Pertanto le politiche di rientro del debito e quindi di austerità continuano a essere definite “necessarie”. Quanto sostenibili e attuabili sarà da vedere.

Per quanto attiene al lato politico (e culturale), quel che si cerca di fare in Europa è di giungere all’uguaglianza degli individui nell’ambito democratico. Ci si può chiedere però quale sia il modello di riferimento per l’uguaglianza: uguali a chi? Nonostante Giuseppe Mazzini auspicasse una “Europa dei popoli” e Charles De Gaulle prediligesse una “Europa delle patrie”, quella che vediamo oggi è invece una “Europa del “pensiero unico” che propugna un’ideologia così descritta dallo storico Luciano Canfora: «L’“europeicità” è diventata la nuova ideologia, soprattutto presso la ex sinistra. Qui alligna ormai sempre più spesso il monito intimamente compiaciuto e pensoso: “Ce lo chiede l’Europa!”. Un tale ritornello, che serve a tappare la bocca a qualunque rilievo critico, è solo una parte dell’ideologia “europea”. Si finge infatti che l’epiteto “europeo” (di cui si ignorano peraltro il contenuto e il significato, nonché l’ambito geografico), possa, e anzi debba, riferirsi – qualificando e promuovendo – a un qualche oggetto o fatto o comportamento. Per non parlare della “prospettiva” che è sempre tenuta ad essere “europea” ».

In un contesto reso più difficile dalla crisi, il prosieguo del processo di unificazione (compito immane, come detto) necessiterebbe di un’idea e di un’ispirazione nuove che dovrebbero scaturire anche da un nuovo momento di partecipazione dei cittadini. Un “colpo d’ala” che non si intravvede all’orizzonte.
Per quanto riguarda invece il quadro globale nel quale l’Europa si inserisce, la crisi apertasi negli ultimi anni ha investito i concetti-cardine scaturiti dal crollo dell’Unione Sovietica, ovvero l’egemonia unipolare statunitense e il sistema liberista, che costituiscono i pilastri della strategia globalizzatrice finora perseguita. La crisi si è manifestata in maniera progressiva dapprima come crisi finanziaria e dei mercati, poi come crisi economica del settore reale. Ora inizia a palesarsi come crisi di sistema e in definitiva “di civiltà”: “di sistema” in quanto nessuno degli “agenti” operanti presi singolarmente è in grado di affrontarla e risolverla; “di civiltà” (e quindi di “proposta culturale”) in quanto ci troviamo forse di fronte a quel tornante della Storia che segna la fine dell’egemonia occidentale come la conosciamo più o meno a partire dal 1492.
Il “Centro regolatore” che finora presiedeva all’assetto globale non è più in grado di funzionare in maniera “stabile” e “ordinata”. Si tende quindi a un assetto “disordinato” (“caos globale”) e in prospettiva verso il cosiddetto “multipolarismo”. Resta da vedere se questo “trapasso” avverrà in maniera indolore o meno. Gli esempi storici registrati finora purtroppo non ci spingono all’ottimismo. In ogni caso la crisi continuerà a manifestare i suoi effetti. E’ probabile tuttavia che le varie forze in campo si illuderanno a lungo sulla possibilità di ripristinare un equilibrio e una mutua cooperazione, continuando ad incontrarsi, sfruttando organismi e istituzioni internazionali creati però nella precedente epoca (prima bipolare, poi monocentrica) fingendo che essi funzionino ancora da luoghi di accordo e composizione dei contrasti. Simile finzione però non regge più e ciò spiega i continui nulla di fatto dei vari G-x e l’impasse dell’ONU.
Occorre dunque prendere atto della realtà (del “concreto” come direbbe Canetti), e affrontarla in maniera “adulta”. Una riflessione seria va fatta senza tabù, anche con l’idea di fare un passo indietro, con l’obiettivo sperabile di spiccare il salto “nicciano”.
Passo indietro che per l’Italia significa ad esempio affrontare anche i problemi della “sovranità” e del “ricambio” della classe dirigente (politica, economica, imprenditoriale, sindacale) che in prospettiva rischiano di far entrare in disfacimento il Paese. La classe dirigente viene infatti sempre più manifestamente contestata perché non in grado di difendere gli interessi nazionali e quelli della quota maggioritaria del suo popolo.

Nel frattempo, l’ingresso nell’arena elettorale di una pretesa visione “tecnica” segna uno spartiacque nella storia politica italiana: l’intenzione, apertamente dichiarata, è quella di sostituire alla tradizionale contrapposizione destra/sinistra la nuova pro UE/contro UE (o globalisti/sovranisti). La designazione dei campi politici contrapposti coincide con le analisi di intellettuali di diversa estrazione come Alain de Benoist o Costanzo Preve. Peccato che solo in parte questa contrapposizione (e i suoi significati) venga esplicitata ai cittadini. In definitiva, tra un’IMU e una TARES, forse sarebbe ora di pensare: quale Europa vogliamo?
Edoardo Tagliaferri

CPO: c'era una volta, 15 anni fa...


A volte, tornare indietro con la memoria aiuta a capire vizi e virtù dei tempi presenti (i vizi, soprattutto). Vi proponiamo la lettura di questi brani tratti dalla Relazione CPO del 1998, che analizzava criticità e avanzava proposte concrete. Quindici anni fa. Segnalateci le differenze...

"...La Commissione annette grande importanza a questo pacchetto di interventi perché afferma come prioritario il valore sociale della maternità, che costituisce comunque un momento di particolare delicatezza nell’esperienza lavorativa della donna.

Dall'esame del sistema di gestione della maternità in Banca d'Italia, sono emerse alcune criticità collegate:
  • al sistema di valutazione;
  • alla definizione dell’utilizzo al rientro dall’assenza;
  • all’aggiornamento professionale;
  • alla disciplina penalizzante di alcune causali di assenza collegate alla maternità;
  • ai servizi di assistenza all'infanzia.
Tali criticità a giudizio della commissione incidono negativamente sullo sviluppo di carriera del personale femminile sia in modo diretto sia indirettamente determinando condizioni di demotivazione.

Criticità:
Si è rilevato che, a fronte di assenze per maternità, anche limitate soltanto per i 5 mesi di astensione obbligatoria, l’'effetto alone" provocato dal periodo di assenza porta il valutatore, di norma, a confermare la valutazione dell' anno precedente pur in presenza di prestazioni tali da meritare un incremento della valutazione.
Proposta
la commissione propone che venga introdotta una valutazione straordinaria effettuata immediatamente prima dell'inizio dell’astensione obbligatoria, che tenga conto del livello della prestazione effettuata fino a quel momento. Ad esempio, se l'estensione obbligatoria inizia a febbraio, verrà stilato il rapporto valutativo entro febbraio, con riferimento al periodo settembre-febbraio.

Criticità
Al rientro dalla maternità sono stati riscontrati casi in cui, le donne sono state trasferite ad altra unità o assegnate ad altre mansioni meno gratificanti.
Raccomandazione
la commissione raccomanda che i Titolari delle Unità siano sensibilizzati affinché sia garantito alle donne che rientrano in servizio dopo un periodo di assenza per maternità il mantenimento delle stesse attività, almeno fino a un anno dal rientro in servizio.

Criticità
Durante l'assenza per maternità non sono curati l'informazione e l'aggiornamento professionale della lavoratrice. Ciò rende più complessi il superamento delle difficoltà di reinserimento e, in alcuni casi, la preparazione ad esami interni per gli avanzamenti di carriera.
Raccomandazione
La commissione raccomanda che vengano sensibilizzati i Titolari delle Unità di appartenenza sull'opportunità d inviare alla dipendente i documenti ritenuti rilevanti ai fini dell'attività svolta e di programmare la partecipazione a corsi di aggiornamento al rientro dal periodo di assenza;
siano previsti a favore delle lavoratrici che rientrano da periodi di maternità, specifici “itinerari di reinserimento” di durata non inferiore a 2 settimane, da effettuarsi - di norma - sotto la guida del titolare della struttura di appartenenza.

Criticità
L'attuale normativa a tutela della maternità prevede la possibilità di assentarsi per malattia del figlio senza retribuzione, fino a tre anni di vita del bambino. Ciò determina una eccessiva penalizzazione economica delle lavoratrici e pertanto è limitato il ricorso a tale facoltà.
Proposta
La commissione propone che venga inserito il caso di malattia del figlio e le causali previste per la concessione del congedo straordinario, fermo restando il numero complessivo annuo di giorni previsto dal regolamento del personale.

Criticità
L'astensione facoltativa per maternità incide negativamente negli avanzamenti per anzianità congiunta al merito (ad esempio, nel caso degli avanzamenti degli Assistenti superiori).
Proposta
nei passaggi di carriera per anzianità congiunta merito la commissione propone che venga inserito la fine del calcolo dell'anzianità anche l'eventuale periodo di astensione facoltativa fino al raggiungimento del primo anno di vita del bambino.
La possibilità di usufruire di un servizio di assistenza per i figli vicino o presso il posto di lavoro, è accordata al solo personale femminile addetto alle strutture dell'area romana.

Criticità
Orario di lavoro. Nella cultura aziendale viene ancora ritenuta non solo premiante, ma spesso essenziale una prolungata permanenza nel luogo di lavoro, ben oltre il normale orario. In tale contesto, può risultare pertanto svalutata la prestazione lavorativa del personale femminile, spesso condizionata nella sua articolazione oraria dalle particolari esigenze familiari
Proposta
La commissione ritiene che vada significativamente rinnovato il quadro normativo interno in tema di orario di lavoro e flessibilità della prestazione lavorativa. In particolare, si propone di modificare:
  • le condizioni normative del part-time, sia economiche sia di carriera attraverso

  1. l’ampliamento dell’arco temporale part-time…;
  2. l’ introduzione del part-time verticale su 3 o 4 giorni settimanali;
  3. l'eliminazione della relazione inversa tra il tempo “lavorato” e quello necessario di permanenza in grado per aspirare ad avanzamenti.
  • Il regime di flessibilità di orario attraverso

  1. La possibilità di distribuire l’orario complessivo settimanale su 4 giorni anziché 5…
  2. una maggiore elasticità in entrata e in uscita e dell'intervallo mensa
  3. la possibilità di completare l'orario di lavoro nell'arco del mese anziché della settimana
  4. la possibilità di fruire mensilmente in certa misura riposi compensativi a fronte di prestazioni straordinarie
  5. inserimento di un tetto il plus orario del personale, direttivo superato il quale sia obbligatorio il ricorso a forme di riposo compensativo..."